Dall’autobiografia come cura di sé all’autobiografia come ponte verso l’altro

Raccontarsi per illuminare e mettere ordine

Raccontarsi, sentirsi ascoltati, sono bisogni primari come mangiare e bere. Per chi non si conosce, per chi non si è mai raccontato o non è mai stato ascoltato davvero, l’approccio autobiografico è un momento di svolta. Scrivere, parlare, ricordare diventano occasioni profonde di presa di coscienza. Il racconto di sé è uno strumento potente di cambiamento. Raccontare la propria storia significa riconoscerla, ordinarla, a volte perfino perdonarla. Significa anche, molto spesso, scoprire cose in precedenza ignorate e nascoste di sé.

Tante persone non hanno mai avuto uno spazio in cui potersi raccontare. Non hanno mai sentito l’autorizzazione a farlo. E quando finalmente iniziano, quel gesto ha qualcosa di liberatorio, quasi euforico. “Adesso parlo io”.

In questa prima fase, l’autobiografia ha una funzione terapeutica evidente. Permette di mettere distanza tra sé e il proprio passato, di cogliere fili conduttori, di dare nomi alle emozioni. In alcuni casi, diventa persino un gesto politico: prendere parola contro le narrazioni dominanti, affermare la propria voce, dire la verità del proprio vissuto.

Ma poi?

La narrazione autoreferenziale

Dopo una prima fase generativa, il rischio è che l’autobiografia si trasformi in un atto sterile. In una ripetizione infinita degli stessi episodi, degli stessi dolori, delle stesse interpretazioni. Una sorta di “masturbazione intellettuale”: un atto solitario, autoreferenziale, chiuso su sé stesso.

Continuare a raccontare le stesse cose, a ripescare nello stesso passato può diventare un momento di stallo, di chiusura, un avvitamento su se stessi.

Due direzioni possibili per andare oltre

Per evitare questa deriva, è necessario proseguire la propria crescita personale in due direzioni:

1.Rendere coerente la propria vita con la propria natura
Se l’autobiografia ha portato a una maggiore consapevolezza di sé, questa consapevolezza deve trasformare il nostro quotidiano. Non basta aver individuato i propri valori: bisogna iniziare a vivere in coerenza con essi. Cambiare abitudini, prendere decisioni, uscire da relazioni che non rispondono ai nostri bisogni, fare scelte professionali più aderenti alla propria natura.

In questa prospettiva, la narrazione di sé non deve più limitarsi a uno strumento di introspezione, ma diventare una leva per la trasformazione del quotidiano. Le pratiche narrative devono perciò indirizzarsi, da un certo punto in poi, verso la progettazione e la messa in atto di cambiamenti di vita.

2.Ricerca dell’altro: costruire legami a partire da una capacità di introspezione condivisa
La seconda direzione è quella relazionale. Una volta che abbiamo imparato a dare voce alla nostra parte più profonda, possiamo condividere questa nostra abilità e le cose che abbiamo imparato di noi con altre persone, che hanno seguito un percorso simile al nostro e hanno acquisito la stessa capacità e conoscenza di se stesse. La pratica narrativa deve in questo caso essere indirizzata a migliorare la nostra capacità di connessione con le altre persone e la condivisione dei nostri vissuti. Si tratta, in sintesi, di passare dalla cura di sé all’incontro con l’altro, e, in prospettiva, alla creazione di un rete di persone simili a noi.

Tre diversi tipi di tecniche autobiografiche

In sintesi, le tecniche autobiografiche devono essere in grado di facilitare tre compiti diversi:

  1. La scoperta e la cura di sé: la parola che illumina e mette ordine
  2. La progettazione del cambiamento: l’agire intenzionale per far corrispondere la nostra vita quotidiana alla nostra natura
  3. La condivisione: la costruzione di relazioni, alleanze, senso condiviso.

 

Articolo contenuto sul sito www.orientamento.it. Autore Leonardo Evangelista. Leonardo Evangelista si occupa di orientamento dal 1993 e di formazione dal 2004.  Vedi le indicazioni relative a Informativa Privacy, cookie policy e Copyright.