La dialettica dell’indifferenza
Esempio 1 | Esempio 2 (come sarebbe la stessa strategia applicata in un altro contesto) | Segnalazione di un problema e artifici dialettici per ignorarlo |
Cittadino: “Qui si ha paura ad uscire la sera, una mia collega è stata aggredita” | Paziente: “Dottore, nel referto c’è scritto che ho un cancro all’intestino” | Segnalazione di un problema personale |
Politico / attivista / benintenzionato: “Il tasso nazionale di criminalità è in calo. E comunque a Chicago / Francoforte / Nairobi è peggio” | Medico: “Non si preoccupi, i cancri di questo tipo sono in calo costante negli ultimi 10 anni. E comunque negli USA il tasso è più alto” | Risposta di indifferenza verso il problema personale e spostamento del discorso verso un aspetto generale che è in miglioramento o verso una realtà altra che è peggiore |
Cittadino: “Ma cosa possiamo fare?” Politico / attivista / benintenzionato: “E’ colpa della società, è necessario lavorare sull’integrazione” | Paziente: “Ma io che devo fare?” Medico: “La miglior cura contro il cancro è la prevenzione” | Rifiuto di provvedimenti immediati che possono risolvere o ridurre il problema e eventuale rinvio a ‘misure più efficaci / più ampie’ in un futuro indefinito. |
La sociologia come strumento retorico
Nel dibattito sull’immigrazione, la sicurezza e la criminalità urbana, una strategia argomentativa è ormai diventata una prassi consolidata: rispondere alle preoccupazioni dei cittadini con spiegazioni sociologiche.
Non si parla più, o lo si fa con imbarazzo, di repressione, responsabilità individuale, protezione delle vittime. Si parla invece di “marginalità sociale”, “devianza indotta”, “cause strutturali della criminalità”.
Il ragionamento è noto e si ripete in mille varianti:
- “Non bisogna criminalizzare l’immigrazione: la maggioranza degli stranieri non delinque.”
- “Chi commette reati spesso lo fa perché povero, privo di alternative, spinto dalla necessità.”
- “L’Italia è tra i Paesi più sicuri dell’Unione Europea.”
Queste affermazioni, prese singolarmente, non sono false. Ma usate come risposte principali a chi chiede più sicurezza e tutela, diventano una forma di riduzionismo ideologico che finisce per proteggere i carnefici, ignorare le vittime e deresponsabilizzare chi dovrebbe garantire l’ordine pubblico.
Sociologia come alibi: la spiegazione che sostituisce l’azione
La sociologia è una scienza nobile, fondamentale per comprendere i fenomeni sociali. Ma quando diventa l’unico filtro attraverso cui interpretare la devianza, si trasforma in uno strumento di giustificazione sistematica.
Se si dice che chi delinque lo fa perché povero, marginalizzato o escluso, si suggerisce — più o meno apertamente — che la responsabilità penale sia una colpa della società, non del singolo. Se l’aggressore è “una vittima del sistema”, allora la vera causa della violenza non è il suo atto, ma la povertà, il razzismo, la diseguaglianza. Da qui nasce una logica pericolosa: punire non serve, anzi peggiora le cose; quello che serve è “capire, includere, educare”.
Nel frattempo, però, le vittime restano ignorate, invisibili, trattate come danni collaterali di un processo sociale più ampio.
Empatia a senso unico: il cittadino come problema, non come persona
Questo tipo di narrazione ha un effetto devastante sul piano etico: l’empatia viene concessa solo a chi commette reati, non a chi li subisce.
Si piange sulla storia dell’aggressore: “Viveva in condizioni disperate, senza lavoro, senza casa, in fuga da guerre o persecuzioni.” Ma non si spende una parola per chi ha subito un reato da parte di stranieri. Si capisce l’aggressore, ma si colpevolizza — o si ignora — la vittima.
E se la vittima si lamenta, protesta, ha paura?
Allora viene accusata di “generalizzare”, di “essere xenofoba”, o le si dice che “i dati mostrano che i reati sono in calo”. Come se la sua esperienza personale non contasse nulla, come se il dolore vissuto non avesse dignità, perché troppo piccolo per rientrare nella statistica.
Questa asimmetria morale trasforma il cittadino preoccupato in un problema sociale: non è più una persona che esprime un legittimo bisogno di sicurezza, ma un soggetto “da rieducare” ai valori dell’accoglienza e della tolleranza.
Il paradosso della percezione: quando il vissuto diventa “falsa coscienza”
Un elemento particolarmente insidioso di questo approccio è il modo in cui delegittima sistematicamente l’esperienza diretta dei cittadini. Quando un residente di un quartiere segnala un aumento di episodi di microcriminalità, gli viene spesso risposto che “la sua è solo una percezione distorta”, alimentata dai media o da pregiudizi personali.
La percezione di insicurezza viene così ridotta a una forma di “falsa coscienza”, un’illusione ottica sociale che non rispecchia la realtà oggettiva delle statistiche. Ma questa è una profonda contraddizione metodologica: la stessa sociologia che pretende di spiegare la devianza attraverso fattori contestuali, nega poi la validità dell’esperienza contestuale vissuta dai cittadini.
L’esperienza diretta, che in altre circostanze sarebbe considerata una fonte preziosa di conoscenza qualitativa, diventa improvvisamente inaffidabile quando contraddice la narrazione dominante. Il vissuto quotidiano dei residenti di un quartiere viene svalutato in favore di statistiche aggregate che spesso non catturano la complessità delle situazioni locali.
La mediatizzazione selettiva: amplificare alcune notizie, censurarne altre
Un altro meccanismo frequentemente utilizzato è quello della mediatizzazione selettiva dei fenomeni criminali. Nei media a favore dell’immigrazione, quando un italiano commette un reato grave, l’evento riceve ampia copertura mediatica e viene spesso presentato come manifestazione di problemi sociali più ampi (patriarcato, cultura della violenza, ecc.). Quando invece l’autore appartiene a categorie considerate fragili o minoritarie, si tende a ridimensionare l’evento, a omettere la nazionalità o trattarlo come un caso isolato.
Questa duplice modalità narrativa crea una distorsione sistematica nella rappresentazione della realtà criminale del paese. Da un lato si costruiscono narrazioni collettive per alcuni fenomeni, dall’altro si atomizzano e decontestualizzano altri episodi, privandoli della loro possibile dimensione culturale o sociale.
Ridurre gli interventi repressivi: una scelta pericolosa
Un altro effetto diretto di questa strategia è la riduzione sistematica degli interventi repressivi. Se si assume che “il reato è causato dalla società”, allora punire diventa controproducente. E così si invocano:
- la riduzione delle pene
- amnistie e misure alternative alla detenzione,
- programmi di “rieducazione” anche in assenza di pentimento o collaborazione.
La pena perde forza, la legge perde valore, e chi ha subito si sente due volte tradito: dalla giustizia e dalle istituzioni.
In molti contesti, la tolleranza diventa impunità de facto: spaccio tollerato nelle stazioni, piccoli furti mai perseguiti, vandalismo che resta impunito, accoltellamenti ridotti a “atti isolati”. Così, il senso civico si riduce e l’illegalità si diffonde come norma informale, come linguaggio quotidiano accettato.
Questo crea una spirale perversa: minore repressione porta a maggiori reati, che portano a una normalizzazione dell’illegalità e quindi alla richiesta di ancora minore repressione. Il degrado urbano diventa così una profezia che si autoavvera, giustificata da una visione sociologica che minimizza l’importanza del controllo sociale formale.
Il problema è culturale, non solo criminale
La criminalità urbana, soprattutto quella predatoria, è spesso espressione di una cultura. Non basta dire “sono poveri”, se poi i reati colpiscono sempre le stesse categorie, in modi ripetuti, con dinamiche simili.
Quando gruppi o individui, anche stranieri, esibiscono comportamenti violenti come linguaggio abituale, quando la sopraffazione viene giustificata dal bisogno o dall’identità, allora serve una risposta culturale e repressiva, non solo comprensione sociologica.
Tollerare queste forme di violenza significa legittimarle come parte del paesaggio urbano. Significa anche abdicare alla responsabilità di proteggere i valori fondamentali della convivenza civile, che includono il rispetto dell’integrità fisica e della proprietà altrui.
Le differenze culturali esistono e vanno riconosciute, ma ciò non significa accettare comportamenti che contraddicono i principi fondamentali di una società democratica. L’integrazione presuppone l’adesione a un nucleo minimo di valori condivisi, che include il rifiuto della violenza come mezzo di espressione o di risoluzione dei conflitti.
Il paradosso delle statistiche
Un altro elemento spesso utilizzato nel discorso pubblico è il riferimento a statistiche che mostrerebbero che la situazione in Italia è migliore di quella in altri Paesi o che certi reati sono in diminuzione. Si tratta di un artificio retorico.
L’uso delle statistiche aggregate è un argomento per delegittimare le esperienze vissute: dire a una persona che ha subito un’aggressione o vive in un quartiere ad alta incidenza criminale che “Negli stati Uniti il tasso di criminalità è più alto che in Italia” o che in Italia “I reati sono in calo” (cosa vera peraltro solo per gli omicidi, mentre le violenze urbane sono in aumento) è solo un modo per minimizzare il problema e zittire chi denuncia una realtà concreta e personale.
Eventuali cali della criminalità complessiva non escludono la presenza di realtà locali significative: è possibile che, mentre certi reati diminuiscono su scala nazionale, aumentino in determinate città, quartieri o contesti specifici.
In secondo luogo, le statistiche ufficiali registrano solo i reati denunciati o rilevati dalle forze dell’ordine. Molti episodi di microcriminalità (furti, molestie, aggressioni) non vengono segnalati, specialmente quando le vittime percepiscono che non ci sarà una risposta efficace.
Infine, le statistiche non misurano l’impatto qualitativo del crimine sulla vita quotidiana: un aumento anche modesto di certi reati in determinate aree può avere un effetto devastante sulla qualità della vita dei residenti, alterando profondamente abitudini, percezioni e relazioni sociali. Questo è un punto che vale la pena di approfondire.
L’impatto qualitativo della criminalità sulla vita quotidiana
Le statistiche sulla criminalità, per quanto utili, falliscono sistematicamente nel catturare una dimensione fondamentale del problema: l’impatto qualitativo che anche un modesto aumento di certi reati può avere sulla vita delle persone. Questo aspetto merita un’analisi più approfondita perché rappresenta il cuore dell’esperienza vissuta dai cittadini.
La trasformazione dello spazio pubblico
Quando determinati reati, anche minori, diventano frequenti in un’area, lo spazio pubblico subisce una profonda trasformazione simbolica e funzionale. Luoghi che prima erano punti d’incontro e socializzazione diventano zone da evitare, specialmente in certe fasce orarie.
Pensiamo a una piazza o un parco dove iniziano a verificarsi episodi di spaccio o piccole aggressioni. Gradualmente, quell’area viene abbandonata dalle famiglie, dagli anziani, dai bambini. Non è necessario che avvengano decine di reati gravi: bastano pochi episodi ripetuti per innescare quello che i sociologi urbani chiamano “effetto di spiazzamento”. Lo spazio pubblico, formalmente accessibile a tutti, diventa di fatto dominio esclusivo di chi impone la propria presenza attraverso comportamenti intimidatori o illegali.
L’alterazione delle abitudini quotidiane
Le statistiche non raccontano come le persone modificano profondamente le proprie routine in risposta alla percezione di insicurezza. Questi cambiamenti rappresentano una forma di “tassa invisibile” sulla libertà personale:
- Una donna che evita di rientrare a casa da sola dopo una certa ora
- Un anziano che rinuncia a frequentare un parco dove andava quotidianamente
- Genitori che non lasciano più i figli adolescenti usare i mezzi pubblici la sera
- Commercianti che installano costosi sistemi di sicurezza e chiudono prima
- Residenti che fanno lunghi percorsi alternativi per evitare certe strade
Queste micro-decisioni quotidiane, moltiplicate per migliaia di persone, creano una profonda trasformazione del tessuto sociale urbano. La vita comunitaria si impoverisce, gli spazi di spontanea socializzazione si riducono, e si crea una spirale negativa: meno persone frequentano uno spazio pubblico, più quello spazio diventa vulnerabile a fenomeni di degrado.
La frammentazione delle relazioni sociali
L’aumento dell’insicurezza percepita erode anche i legami comunitari e di vicinato. In contesti dove il crimine è percepito come una minaccia costante:
- Si riduce la fiducia interpersonale, specialmente verso estranei
- Diminuisce la disponibilità a intervenire in situazioni problematiche (quello che i sociologi chiamano “controllo sociale informale”)
- Si sviluppano atteggiamenti difensivi e di chiusura nelle relazioni sociali
- Aumenta la segregazione spaziale e sociale tra gruppi diversi
- Si rafforzano stereotipi e pregiudizi, rendendo più difficile l’integrazione
Studi sulla psicologia sociale urbana hanno dimostrato come anche pochi episodi criminali possano innescare quella che viene definita “paura del crimine”, un fenomeno sociale che va ben oltre il rischio statistico oggettivo ma che ha conseguenze reali e misurabili sulla salute mentale delle comunità.
Il costo psicologico dell’insicurezza
Lo stress cronico derivante dalla percezione di insicurezza ha effetti documentati sulla salute psicofisica degli individui. Le persone che vivono in aree percepite come insicure mostrano:
- Livelli più elevati di ansia e disturbi dell’umore
- Maggiore propensione all’isolamento sociale
- Ridotta attività fisica (per il timore di frequentare spazi pubblici)
- Sensazione di perdita di controllo sulla propria vita
- Sfiducia nelle istituzioni e nel futuro del proprio quartiere
Questi costi psicologici, impossibili da quantificare nelle fredde statistiche sulla criminalità, rappresentano un danno reale al benessere individuale e collettivo, con ripercussioni anche economiche (maggiore assenteismo lavorativo, spese sanitarie, deprezzamento immobiliare).
Il deterioramento del capitale sociale
Un concetto sociologico fondamentale per comprendere l’impatto qualitativo della criminalità è quello di “capitale sociale”: la rete di relazioni, norme condivise e fiducia reciproca che permette a una comunità di funzionare efficacemente.
Quando la percezione di insicurezza cresce, questo capitale sociale subisce un progressivo deterioramento:
- Diminuisce la partecipazione a eventi pubblici e attività comunitarie
- Si riduce la disponibilità a frequentare servizi e istituzioni locali
- Cala l’investimento emotivo dei residenti nel benessere del quartiere
- Aumenta la propensione a trasferirsi altrove (per chi può permetterselo)
- Si crea un circolo vizioso di abbandono e ulteriore degrado
Il risultato è quello che l’urbanista Jane Jacobs chiamava la “morte delle città”: non un collasso strutturale, ma la progressiva erosione di quella complessa rete di relazioni umane che rende vitale uno spazio urbano.
L’effetto asimmetrico dei reati
Un ulteriore aspetto ignorato dalle statistiche è l’effetto asimmetrico di diversi tipi di reato sulla percezione di sicurezza. Non tutti i crimini hanno lo stesso impatto psicologico e sociale:
- Reati come borseggi, scippi, aggressioni verbali e molestie, sebbene classificati come “minori” nelle statistiche, hanno un forte impatto sulla percezione di vulnerabilità negli spazi pubblici
- Reati visibili che avvengono in spazi pubblici hanno un effetto moltiplicatore sulla percezione di insicurezza rispetto a crimini che avvengono in contesti privati
- La presenza di segni fisici di degrado (graffiti vandalici, rifiuti, edifici abbandonati) amplifica la percezione di insicurezza, secondo la teoria delle “finestre rotte”
Questo spiega perché i cittadini possono sentirsi profondamente insicuri anche in aree dove le statistiche ufficiali mostrano tassi di criminalità moderati: è la tipologia e la visibilità dei reati, non solo la loro frequenza assoluta, a determinare l’impatto sulla qualità della vita.
La sfiducia istituzionale come conseguenza
Quando i cittadini percepiscono che le loro preoccupazioni sulla sicurezza vengono minimizzate o ridotte a “mere percezioni”, il danno più profondo è la perdita di fiducia nelle istituzioni. Questa sfiducia si manifesta in diversi modi:
- Diminuzione delle denunce (perché “tanto non cambia nulla”)
- Riduzione della collaborazione con le forze dell’ordine
- Aumento della tendenza all’autodifesa e alla giustizia privata
- Disaffezione verso la partecipazione civica e politica
- Crescente polarizzazione del dibattito pubblico su questi temi
Le statistiche ufficiali possono mostrare una stabilità o persino un calo dei reati denunciati, mentre nella realtà questo dato nasconde una crescente sfiducia nel sistema e una normalizzazione di comportamenti illegali che non vengono più segnalati.
Verso una comprensione integrata del fenomeno
Per superare i limiti delle statistiche sulla criminalità e cogliere l’impatto reale sulla qualità della vita, sarebbe necessario integrare i dati quantitativi con:
- Ricerche qualitative sul campo (interviste, focus group, osservazione partecipante)
- Mappature della percezione di sicurezza nei diversi quartieri
- Monitoraggio dei cambiamenti nelle abitudini e nei comportamenti dei residenti
- Analisi dell’impatto economico (variazione dei valori immobiliari, chiusura di attività commerciali)
- Studio degli indicatori di salute pubblica correlati allo stress cronico
Solo attraverso un approccio multidimensionale che valorizzi anche l’esperienza vissuta dei cittadini si potrà comprendere pienamente come anche un modesto aumento statistico di certi reati possa trasformare radicalmente la qualità della vita in un quartiere, una città, una comunità.
La vera sfida per chi si occupa di politiche della sicurezza è quindi quella di andare oltre i numeri, per cogliere come il crimine modifichi il tessuto stesso della vita quotidiana, alterando profondamente il modo in cui le persone abitano, vivono e si relazionano negli spazi urbani.
La strategia della distrazione: confronti inappropriati
“In America è peggio”, “In Sud Africa la criminalità è più violenta”, “In Francia ci sono più problemi di integrazione”, “Ad Auschwitz si stava peggio”. Questi confronti, frequenti nelle discussioni sulla sicurezza, rappresentano una classica strategia di distrazione retorica.
Paragonare realtà profondamente diverse per storia, cultura, istituzioni e contesto socio-economico non offre alcun contributo costruttivo al dibattito. È come dire a un paziente con una frattura alla gamba che non dovrebbe lamentarsi perché altre persone hanno malattie terminali.
Questi paragoni servono solo a minimizzare le preoccupazioni legittime dei cittadini e a spostare l’attenzione dal problema concreto a confronti astratti che non portano a soluzioni pragmatiche. Il fatto che esistano situazioni peggiori altrove non costituisce una giustificazione per l’inazione o la rassegnazione di fronte ai problemi locali.
Inoltre, questo approccio rivela una contraddizione ideologica: gli stessi che sottolineano l’unicità del contesto italiano quando si tratta di difendere certe politiche sociali, ricorrono a paragoni internazionali decontestualizzati quando si tratta di minimizzare i problemi di sicurezza.
L’etica della responsabilità e il fallimento dell’approccio compassionevole
Un aspetto raramente discusso è come l’approccio puramente compassionevole e sociologico alla criminalità finisca paradossalmente per danneggiare proprio i soggetti che vorrebbe proteggere.
Quando si rinuncia a stabilire limiti chiari e conseguenze certe per i comportamenti antisociali, si comunica implicitamente una forma di inferiorizzazione: come se chi proviene da contesti diversi o situazioni difficili fosse incapace di rispettare le regole di convivenza civile.
La vera accoglienza passa anche attraverso l’affermazione di un quadro normativo chiaro e coerente, che definisca diritti e doveri uguali per tutti. Trattare diversamente gli individui sulla base della loro provenienza o condizione sociale, sia nel senso della discriminazione negativa che in quello dell’impunità, significa negare la loro piena umanità e capacità di autodeterminazione.
Un approccio che bilanci comprensione e fermezza non è solo più efficace sul piano pratico, ma anche più rispettoso della dignità di tutti i soggetti coinvolti. Riconoscere che ogni individuo è responsabile delle proprie azioni, pur tenendo conto dei condizionamenti sociali, è il primo passo per costruire una vera integrazione basata sul rispetto reciproco.
Verso un equilibrio: comprensione e responsabilità
Un dibattito maturo sulla sicurezza urbana dovrebbe superare la falsa dicotomia tra “comprensione sociologica” e “approccio repressivo”. Entrambe le dimensioni sono necessarie, ma non sufficienti se prese isolatamente.
Comprendere le cause profonde della criminalità è fondamentale per elaborare strategie preventive efficaci a lungo termine. Allo stesso tempo, garantire la certezza della pena, il rispetto delle regole e la protezione delle vittime è essenziale per mantenere la coesione sociale e la fiducia nelle istituzioni nel presente.
Una società che aspira a essere sia giusta che sicura deve saper tenere insieme questi due aspetti, senza che l’uno elimini l’altro. La vera inclusione sociale passa attraverso l’affermazione di diritti e doveri condivisi, non attraverso l’abbandono del principio di responsabilità individuale.
Il cittadino che chiede sicurezza non è un nemico dell’integrazione o un soggetto preda di paure irrazionali: è una persona che esprime un bisogno legittimo, che merita di essere ascoltato e affrontato con serietà dalle istituzioni, senza pregiudizi ideologici o riduzionismi sociologici.
Solo riconoscendo la complessità di questi fenomeni e superando le semplificazioni strumentali potremo costruire città in cui l’accoglienza e la sicurezza non siano considerate obiettivi contrastanti, ma dimensioni complementari di una convivenza civile autenticamente democratica.
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Articolo contenuto sul sito www.orientamento.it. Autore Leonardo Evangelista. Riproduzione riservata. Vedi le indicazioni relative a Informativa Privacy, cookie policy e Copyright.