Lavoratori precari. Quanti sono e come ridurli

Lavoratori precari
Lavoratori precari (?)

Sugli organi di stampa, nelle dichiarazioni sindacali, in studi e ricerche, quello del lavoro precario è un tema che ricorre spesso. Questo articolo approfondisce:

  • che cosa significa lavoratore precario
  • chi sono i lavoratori precari in Italia
  • quanti sono i lavoratori precari in Italia
  • motivi del precariato in Italia
  • quali misure è possibile adottare per ridurre il numero dei lavoratori precari.

Definizioni di lavoratore precario e lavoro precario

Parlando in termini generali, il lavoro precario si riferisce a una forma di occupazione caratterizzata da una serie di condizioni che comportano incertezza e insicurezza per i lavoratori. Solitamente, si manifesta attraverso contratti a tempo determinato, contratti a chiamata o contratti di lavoro a breve termine, che offrono una stabilità lavorativa limitata.

La precarietà può anche essere associata a bassi livelli di protezione sociale, mancanza di benefici e diritti lavorativi, bassa copertura assicurativa e scarsa prospettiva di crescita professionale. I lavoratori precari spesso affrontano un’instabilità economica e una mancanza di sicurezza nel lungo termine, con conseguenze negative sulla loro stabilità finanziaria e sul benessere generale.

In Italia al momento ci sono 3 milioni di persone con contratto a tempo determinato, pari al 13% degli occupati (compresi i lavoratori autonomi). Il dato è in linea con la media dell’Unione europea.

Andando ad approfondire, si scopre che le definizioni di lavoratore precario e precariato non sono univoche, e ugualmente che non è possibile definire i lavoratori precari semplicemente come lavoratori con contratto a termine.

Spesso la realtà è un po’ più complessa di come vorremmo. Proviamo ad approfondire.

L’assenza di definizione sull’Osservatorio del precariato INPS

Sul sito INPS Osservatorio del precariato non c’è una definizione di lavoro precario o precariato. La Nota Metodologica scaricabile dal sito definisce concetti come ad esempio lavorio accessorio, lavoro occasionale, ma la definizione che ci interessa manca.

La definizione di precariato di Wikipedia

Secondo Wikipedia Con il termine precariato si intende l’insieme dei soggetti lavoratori che vivono una generale condizione lavorativa di incertezza che si protrae, involontariamente, per molto tempo. Il termine, nell’utilizzo comune, denota la presenza di due fattori principali:

  • mancanza di continuità del rapporto di lavoro e di certezza sul futuro;
  • mancanza di un reddito e di condizioni di lavoro adeguate su cui poter contare per la pianificazione della propria vita presente e futura.

Il termine è utilizzato quando la flessibilità lavorativa assume tratti degenerativi, sistematici e imposti.

Dunque secondo Wikipedia il lavoro è precario quando:

  1. non è continuativo nel tempo e
  2. la non continuità provoca incertezza sul futuro e
  3. il reddito e le condizioni di lavoro non permettono di pianificare la propria vita e
  4. le tre condizioni precedenti non sono frutto di libera scelta.

La definizione non differenzia fra lavoro al nero (cioè senza contratto di lavoro) e lavoro con un regolare contratto di lavoro o incarico.

Master in Orientamento degli adulti
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La definizione di lavoro precario secondo il Parlamento europeo

La Risoluzione del Parlamento europeo del 4 luglio 2017 sulle condizioni di lavoro e l’occupazione precaria 2016/2221(INI)) (2018/C 334/09) definisce innanzitutto occupazione standard e occupazione atipica. Secondo il considerando N:

per occupazione standard si intende un’occupazione regolare a tempo pieno o a tempo parziale volontario sulla base di contratti a tempo indeterminato.

Rientrano così fra i lavori atipici:

  • I lavori dei liberi professionisti con partita IVA: notai, avvocati, architetti, psicologi, ma anche persone impegnate in professioni non riconosciute dalla legge ad esempio personal trainer
  • I lavori degli artigiani che lavorano individualmente con partita IVA: idraulico, restauratore, etc.
  • Persone che collaborano con contratti diversi da quelli a tempo indeterminato, ad esempio lavoratori ordinari e interinali con contratti a termine, lavoratori a collaborazione senza partita IVA, e così via.

E‘ evidente che non tutti i lavoratori atipici hanno redditi inadeguati o instabili; perciò, non possiamo ritenere automaticamente precari tutti coloro che non lavorano con un contratto di assunzione a tempo indeterminato.

La stessa risoluzione (art. 2) evidenzia che i termini «atipico» e «precario» non possono essere utilizzati come sinonimi e afferma che per lavoro precario si intende un’occupazione nella quale non vengono rispettate le norme e le disposizioni dell’UE, internazionali e nazionali e/o che non offra mezzi sufficienti per una vita dignitosa o una protezione sociale adeguata.

La definizione purtroppo è troppo ampia. La Risoluzione prova poi a chiarire dicendo che (art. 4) alcune forme atipiche di occupazione possono comportare maggiori rischi di precarietà e insicurezza, ad esempio nel caso del lavoro a tempo parziale involontario, del lavoro a tempo determinato, dei contratti a zero ore nonché di tirocini e apprendistati non retribuiti, ma rileva che il rischio di precarietà dipende, oltre al tipo di contratto, da una serie di altri fattori quali (art.6):

  • nessuna o limitata protezione da qualunque forma di discriminazione;
  • prospettive limitate o nessuna prospettiva di avanzamento sul mercato del lavoro o nella carriera e nella formazione;
  • scarso livello di diritti collettivi e diritti limitati in materia di rappresentanza collettiva;
  • un ambiente di lavoro che non rispetta le norme minime in materia di salute e di sicurezza.

E’ evidente che nella Risoluzione, per definire lavori precari, si fa riferimento ad aspetti spesso difficili da definire in un misurazione quantitativa dei lavoratori precari. Ad esempio è difficile definire in modo univoco quando la protezione contro le discriminazione è limitata, oppure quando le prospettive di carriera siano limitate, quando il livello dei diritti collettivi sia scarso.

Inoltre non è chiaro se le condizioni nell’elenco puntato vanno aggiunte a forme contrattuali atipiche o possano valere anche per assunzioni a tempo pieno e indeterminato. In questo secondo caso siamo molto lontani dalle definizioni di lavoro precario a cui si fa di solito riferimento sulla stampa.

La definizione di precariato dell’Enciclopedia Treccani

La definizione dell’Enciclopedia Treccani è più categorica: il precariato è la condizione del lavoratore temporaneo, con un contratto a termine; anche, l’insieme di tali lavoratori in un determinato settore o in generale.

In questo caso viene considerato precario anche il lavoratore che sceglie volontariamente un contratto a termine. Il termine lavoratore fa pensare che la definizione di riferisca solo a lavoratori dipendenti.

In un altro lemma, la Treccani ci informa che il termine precarietà è stato coniato da P. Sylos Labini per indicare la situazione di individui che vivono una condizione lavorativa caratterizzata da insicurezza a causa della mancanza di continuità nella partecipazione al mercato del lavoro, e non riescono quindi a percepire un reddito adeguato alla pianificazione della propria esistenza presente e futura.

Ci informa inoltre che in molti Paesi contratti di lavoro diversi da quello pieno e indeterminato sono stati a partire dal 1990, e che questo a causa della loro durata limitata, della bassa copertura assicurativa e dei minori diritti ha creato situazioni di precarietà.

La Treccani aggiunge che però non necessariamente tutti i contratti diversi da quello a tempo pieno e indeterminato (chiamati contratti atipici) producono precarietà: è improprio il sovrapporsi dei concetti di atipicità e precarietà. Il lavoro tende a diventare precario o è precario nel caso di assunzioni al nero, quando mancano ammortizzatori sociali per i periodi di disoccupazione, quando i contratti a tempo determinato si susseguono uno dopo l’altro.

Sempre secondo la Treccani i contratti atipici possono andar bene se permettono ai giovani di inserirsi nel mondo del lavoro, mentre sono un indicatore di precarietà quando sono stipulati con persone in età avanzata.

Chi sono i lavoratori assunti a termine

Il caso del Friuli-Venezia Giulia

L’articolo Più che precario il lavoro è stagionale pubblicato nel 2018 e riferito a dati 2016 del Friuli-Venezia Giulia segnala come, con l’eccezione del manifatturiero (17%) i singoli settori maggiormente interessati da assunzioni a termine sono quelli legati ad attività stagionali:

  • hotel e ristorazione 16% degli assunti
  • agricoltura 12%
  • commercio e riparazione autoveicoli: 10%

Gli autori concludono scrivendo che A eccezione del manifatturiero, che infatti risulta uno dei settori dove il rapporto di lavoro dura di più e dove la quota di contratti a tempo indeterminato è più alta della media, gli altri rapporti di lavoro appaiono vincolati alla stagionalità legata alle attività di agricoltura oppure ai picchi produttivi del turismo nei periodi estivi; e le assunzioni tipiche riguardano in prevalenza occupazioni a bassa qualifica. Insomma, moltissimi rapporti a tempo determinato, almeno nella Regione Friuli-Venezia Giulia, sono vincolati alle specificità dello sviluppo locale territoriale ed è possibile che in altre regioni italiane si ritrovi una situazione analoga. È lecito chiedersi, pertanto, se non siano la peculiarità del mercato del lavoro italiano a generare un numero così elevato di contratti a termine più che l’opportunismo delle imprese.

Il caso del Veneto

Un articolo del 2022 dal titolo I contratti brevi non sono il problema esamina, con riferimento al Veneto nel 2022, quali sono le categorie di lavoratori assunti con contratti a termine da 1 a 7 giorni. Gli autori ci dicono che le professioni in cui le assunzioni di un solo giorno superano il 15% del totale delle assunzioni sono molto specifiche:

  • i lavoratori dello spettacolo (il 45 per cento degli assunti a tempo determinato),
  • i tecnici della produzione tra cui fotografi e tecnici audio-video (il 35 per cento),
  • i lavoratori del turismo, qualificati e non tra cui baristi, camerieri, cuochi (tra il 20 e il 25 per cento)
  • gli “specialisti della formazione”, cioè formatori, insegnanti e ricercatori (il 18 per cento).

Al contrario, secondo gli autori, tra gli operai, gli impiegati o i tecnici, l’incidenza dei contratti molto brevi è molto spesso inferiore all’1 per cento.

Sempre secondo gli autori, in Veneto le assunzioni a tempo determinato con contratti fino a 30 giorni generano un ammontare complessivo di giornate a tempo determinato attorno al 3 per cento del totale. Sono le durate tra sei e dodici mesi che danno luogo al 50 per cento delle giornate lavorate con contratti a tempo determinato. Seguono, con quasi il 30 per cento, le durate tra tre e sei mesi.

Quanti sono i lavoratori precari in Italia?

In genere nelle statistiche per lavoratori precari si intendono quanti lavorano con contratti a termine.  Abbiamo visto che questa è una approssimazione, perché:

  • non sono conteggiati i lavoratori al nero
  • non sono conteggiati quanti lavorano con contratti diversi da quelli subordinati, ad esempio persone che svolgono prestazioni occasionali o a partita IVA
  • sono inclusi fra i lavoratori precari anche coloro che lavorano a termine per scelta personale, mentre in molte definizioni che abbiamo visto l’occupazione a termine è considerata precaria solo se involontari.

In Italia al momento i lavoratori a tempo indeterminato sono oltre 15 milioni, contro 3 milioni di assunti a termine (13%) e 5 milioni di lavoratori autonomi.

La categoria lavoratori autonomi comprende artigiani, liberi professionisti, commercianti, agricoltori. Non è possibile considerare come ‘precari’ tutti i lavoratori autonomi. Una parte dei lavoratori autonomi ha dei buoni redditi e una buona posizione sul mercato (pensiamo ad esempio ai notai).

Il rapporto fra lavoratori indeterminati e a termine, negli ultimi 20 anni, si è mantenuto sostanzialmente stabile. Nel periodo 2008 – 2022 in Italia i lavoratori con contratto a tempo determinato sono passati da 2,3 a 3 milioni. Dunque almeno in Italia la copertura mediatica del lavoro precario e dell’esperienza dei lavoratori precari, che sono costantemente oggetto di dibattito, è assai maggiore del loro peso nell’occupazione totale. A questa pagina trovi una serie di grafici con l’andamento nel tempo di dipendenti per tipologia di contratto.

I dati italiani sono in linea con quelli europei. Nel 2020 anche nell’Unione europea i lavoratori con contratto a termine erano il 13% del totale. E ugualmente 13% era la percentuale nell’Unione europea dei lavoratori autonomi. Questa percentuale è rimasta sostanzialmente costante dal 2008 al 2020.

Riguardo al numero dei lavoratori al nero in Italia, sono possibili solo delle stime. L’articolo Lavoro irregolare: quante persone coinvolte in Italia? I numeri ci dice che in Italia sono stimate 3 milioni di persone che lavorano totalmente o almeno in parte al nero. In parte al nero vuol dire che una parte delle ore lavorate non viene inserita in busta paga e viene pagata fuori busta. Di queste, la metà operano nel settore domestico (badanti e aiuto domestico).

In sintesi, il problema di percorsi professionali frammentati riguarda perciò solo una frazione minoritaria dei lavoratori. Questo non autorizza a ignorare le difficoltà e le sofferenze di quanti svolgono attività precarie e anche di coloro che faticano a inserirsi nel mercato del lavoro. Le loro sofferenze vanno considerate e la loro situazione migliorata. Tuttavia è necessario avere chiari i termini della situazione.

Per quali motivi alcune imprese preferiscono assumere lavoratori a termine?

ChatGPT ci dice che le principali motivazioni per cui le imprese preferiscono assumere lavoratori a termine sono le seguenti (riporto verbatim):

1. Flessibilità: I contratti a termine offrono alle imprese maggiore flessibilità nella gestione della forza lavoro. Possono facilmente ridurre o interrompere il rapporto di lavoro alla scadenza del contratto senza dover affrontare le complessità legali e i costi associati al licenziamento di un dipendente a tempo indeterminato.

2. Adattabilità alla domanda: Le imprese che affrontano fluttuazioni stagionali o incertezze nel mercato possono preferire i contratti a termine per adeguare rapidamente la propria forza lavoro alle esigenze della domanda. Possono assumere lavoratori per periodi specifici quando c’è una maggiore richiesta e ridurre il personale quando la domanda diminuisce.

3. Costi inferiori: I contratti a termine possono comportare costi inferiori per le imprese in termini di benefici, contributi previdenziali e altri oneri legati all’occupazione. In alcuni casi, i lavoratori a termine possono ricevere salari inferiori rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato che svolgono lo stesso lavoro.

4. Sperimentazione: Le imprese possono assumere lavoratori a termine per valutarne le competenze, l’adattabilità e la produttività prima di decidere se offrire loro un contratto a tempo indeterminato. Questo permette alle imprese di ridurre il rischio di una cattiva selezione del personale.

5. Progetti specifici: Per progetti o lavori temporanei con una durata definita, le imprese possono preferire assumere lavoratori a termine in modo da avere una forza lavoro dedicata solo per la durata necessaria del progetto, senza doverli mantenere dopo la sua conclusione.

Tuttavia, è importante notare che l’abuso dei contratti a termine per evitare le responsabilità e i diritti dei lavoratori può portare a situazioni di precarietà e sfruttamento. È essenziale bilanciare la flessibilità delle imprese con la protezione dei diritti dei lavoratori per garantire una giusta e sostenibile dinamica occupazionale.

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In Italia i lavoratori a termine guadagnano meno?

Chat GPT trae le notizie da tutto il web, soprattutto quello in lingua inglese; perciò, le informazioni che fornisce possono non sempre essere riferibili automaticamente all’Italia.

Con riferimento al punto 3, la legge italiana, per quel che ne so, stabilisce che a parità di mansioni e settore economico, lo stipendio del lavoratore deve essere lo stesso indipendentemente se il contratto è a tempo indeterminato o determinato.

Cercando su internet trovo una articolo del 2020 scritto da due studiosi dal titolo Sorpresa: i lavoratori temporanei guadagnano di più. L’articolo sostiene che Se si tiene conto della storia occupazionale di ciascun individuo, i lavoratori a tempo determinato vengono pagati più dei loro corrispettivi “indeterminati” al momento dell’assunzione. E a ottenere i vantaggi maggiori sono le donne e i giovani.

I dati non sono coerenti con quelli raccolti da La Repubblica descritti qui sotto.

I lavoratori pagati poco

L’11 luglio 2023 un esponente di ISTAT ha tenuto una relazione presso la Commissione lavoro della Camera dei Deputati. Nel resoconto fornito in un articolo di La Repubblica, secondo la relazione in Italia ci sono circa 3 milioni di lavoratori regolarmente assunti che guadagnano meno di 9 euro l’ora. Ad esempio il contratto della vigilanza privata firmato nel 2023 da Cgil, Cisl e Uil per i vigilanti prevede un salario minimo orario di 6 euro scarsi, ma solo nel 2026.

Poi in Italia ci sono 5 milioni di latori a termine, alcuni per scelta, altri secondo ISTAT involontari, anche se non è chiaro in che modo ISTAT li abbia individuati.

Secondo il rendiconto di La Repubblica, la metà dei dipendenti a bassa retribuzione (sia a causa dei contratti a termine che di salari sotto i 9 euro) è concentrata nei servizi di alloggio e ristorazione, in quelli di supporto alle imprese (prevalentemente agenzie interinali e servizi di pulizia) e nei servizi alla persona (di cura, intrattenimento e istruzione), attività artistiche, sportive e di intrattenimento.

Si tratta in maggioranza di donne, di giovani sotto i 30 anni, di lavoratori del Mezzogiorno e delle Isole.

Secondo La Repubblica: I lavoratori a bassa retribuzione sono impiegati molto spesso da datori di lavoro che avrebbero molte difficoltà a pagarli decentemente. Il 40% lavora nelle microimprese con meno di dieci addetti. Nel corso delle audizioni il presidente della Commissione Lavoro Walter Rizzetto non ha fatto mistero di temere il fallimento delle aziende costrette a pagare 9 euro l’ora. La stessa preoccupazione emerge dal report dei Consulenti del Lavoro (ordine professionale dal quale proviene la ministra Marina Calderone): «Un innalzamento repentino, introdotto per legge, rischierebbe di mettere in crisi le aziende».

La relazione ISTAT è commentata in un articolo Compendio del catechismo sul salario minimo. Domande e risposte (semplici) sulla religione laica tornata alla ribalta nell’ultima settimana:

L’ISTAT ha chiarito che i lavoratori a bassa retribuzione annua sono per la grande maggioranza lavoratori “non-standard” (cioè con contratti di lavoro diversi dal tempo indeterminato a tempo pieno), che non riescono a superare la soglia della bassa retribuzione complessiva anche quando hanno livelli di retribuzione oraria “equi” secondo la proposta della opposizione (9 euro lordi). Dai dati disponibili, pertanto, emerge che il lavoro povero non è in generale legato a bassi livelli di retribuzione oraria, ma è invece determinato dall’alta diffusione del lavoro nero (privo di ogni tutela!), dalla discontinuità dei rapporti di lavoro, dalla diffusione dei contratti ad orario (molto) ridotto e dall’abuso di forme contrattuali non subordinate, in primis il tirocinio e il lavoro occasionale. Sono fattori indifferenti all’approvazione di un salario minimo orario fissato per legge.

Secondo Francesco Seghezzi e Michele Tiraboschi: Il primo nodo da affrontare riguarda le principali cause del lavoro povero in Italia che risiedono in una serie di disfunzioni del mercato del lavoro: part time involontario superiore al 60% del totale, tirocini extra-curricolari più che raddoppiati nell’ultimo decennio, oltre tre milioni di lavoratori in nero, differenziali retributivi elevati tra occupati con contratto a termine e con contratto a tempo indeterminato, false partite iva, gap salariale tra uomini e donne. A questi si sommano condizioni critiche di una buona parte della struttura imprenditoriale italiana caratterizzata da piccole imprese, forte presenza di servizi a basso valore aggiunto, scarsa propensione all’innovazione in molti settori.

Sulla proposta di salario minimo legale vedi l’articolo Salario minimo legale: un obbligo a carico dei datori di lavoro o un vincolo alla libera contrattazione collettiva?

Gli interventi della magistratura contro i bassi salari

La magistratura di Milano sta intervenendo spesso contro imprese che corrispondono bassi salari, anche quando tali salari sono quelli concordati nei contratti di lavoro coi principali sindacati di categoria.

Ad esempio la Procura della Repubblica di Milano ha messo in amministrazione giudiziaria per caporalato la Mondialpol, un’azienda che si occupa di custodia e controlli antirapina. La Mondialpol pagava i dipendenti 5,37 € all’ora  secondo il  livello D del contratto collettivo nazionale «Vigilanza privata e servizi fiduciari».

Secondo la Procura, come citata da Il Corriere della Sera, tale somma è «da ritenersi assolutamente sproporzionata» rispetto alla retribuzione che l’articolo 36 della Costituzione vuole «proporzionata a quantità e qualità del lavoro, e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa».

I contratti atipici e il divieto di licenziare i lavoratori a tempo indeterminato

Dei vari punti evidenziati da ChatGPT, vorrei però soffermarmi sul primo e sul quinto secondo cui la preferenza per contratti a termine, almeno in alcuni casi, sia direttamente collegata alle difficoltà di licenziare i lavoratori a tempo indeterminato.

In altre parole, maggiore è la difficoltà per un’impresa di licenziare i lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato, maggiore è la preferenza per assunzioni con contratti a termine (in cui, come è noto, il contratto si risolve automaticamente alla scadenza, eccetto che nel caso il lavoratore sia in maternità o in malattia) o comunque atipici (a partita IVA, occasionali, etc.).

Tutte le imprese cercano di utilizzare solo il personale di cui hanno bisogno, e di utilizzare solo personale motivato e competente. Mantenere in organico dipendenti che lavorano male o di cui non c’è necessità è un aggravio dei costi.

La presenza in organico di lavoratori improduttivi o non necessari può non essere un grande problema per organizzazioni che non hanno vincoli di bilancio stringenti, come ad esempio le organizzazioni pubbliche (scuole, ministeri, sanità), oppure le imprese che hanno buoni margini di profitto, come ad esempio in Italia la Ferrero o la Barilla.

Di recente ha fatto scalpore il caso di una insegnante che è stata assente dal lavoro 20 anni su 24, prima di essere licenziata al termine di un procedimento durato 5 anni.

La presenza di un congruo numero di dipendenti assenteisti o incapaci non farà certo fallire il Ministero dell’istruzione. Al contrario, l’impossibilità di licenziare lavoratori incompetenti o indesiderati affonderà le molte imprese italiane di piccole dimensioni e/o poco profittevoli.

Proprio per questo motivo il divieto di licenziamento è un po’ attenuato nelle imprese sotto i 15 dipendenti, vedi a riguardo anche il mio articolo Le questioni dietro la limitazione dei licenziamenti e Imprese troppo piccole per competere.

La vicenda della professoressa

Luciano Falasca commenta su Open: La vicenda della prof licenziata dopo aver totalizzato circa 20 anni di assenze nel corsi dei suoi 24 anni di servizio mette in luce alcune macroscopiche disfunzioni del nostro sistema di tutela del lavoro.

Un sistema costruito sulla rigida segregazione tra chi sta dentro la “cittadella” del lavoro subordinato, che offre un sistema di tutele spesso obsolete e ridondanti, e chi sta fuori da quel recinto e deve ogni giorno guadagnarsi un’occasione di lavoro senza beneficiare di alcuna forma di garanzia.

Dentro la “cittadella” del lavoro subordinato esiste un cumulo pressoché infinito di permessi, aspettative, congedi e assenze per malattia che consente di costruire, in maniera del tutto lecita, periodi lunghissimi di assenza dal lavoro.

Un sistema costruito in maniera talmente disordinata da non avere una sanzione efficace per reprimere la condotta di una lavoratrice che non si presenta mai al lavoro. Un diritto del lavoro nel quale ci si può assentare per venti anni dal lavoro (con brevi interruzioni) ha qualche problema di funzionamento.

Per non parlare della sostanziale impossibilità di combattere in modo efficace lo scarso rendimento.

Nonostante la professoressa in questione sia stata licenziata per alcune carenze apparentemente clamorose, la procedura per intimare il licenziamento è stata lunga e laboriosa, e per confermare la decisione ci sono voluti ben tre gradi di giudizio, finiti con decisioni contrastanti.

Inoltre, il provvedimento espulsivo è stato convalidato dalla Cassazione perché le lacune dell’insegnante sembravano molto gravi. Sarebbe stato possibile arrivare alla stessa decisione – licenziamento – di fronte a una “semplice” insufficienza nella prestazione? Abbiamo qualche dubbio, vista l’enorme e quasi insuperabile ostilità della giurisprudenza verso il concetto di “scarso rendimento” (non solo dei professori); come dimostra l’esperienza quotidiana, il docente e qualsiasi altro lavoratore che siano “soltanto” scarsi non sono, di fatto, licenziabili.

Se questa è la situazione in Italia, non meraviglia che molte imprese cerchino, per quanto possibile, di assumere personale con contratti a termine e più in generale che chiedano alla politica forme contrattuali scappatoia.

Falasca sottolinea come il precariato sia semplicemente l’altra faccia della medaglia di un sistema che tutela troppo: Questi due mondi [il mondo dei lavoratori precari e quello dei super garantiti] non sono semplicemente in contraddizione tra loro ma costituiscono anche due facce della stessa medaglia: tante, troppe volte si tenta di sfuggire all’eccesso di rigidità del lavoro tradizionale cercando delle soluzioni “cuscinetto” che assicurano una via d’uscita comoda e irresponsabile dai sistemi caratterizzati da troppe regole.

Quante imprese in Italia possono permettersi lavoratori assenteisti e improduttivi?

In un recente articolo l’economista Pasquale Tridico, ex presidente dell’INPS eletto su indicazione del Movimento 5 Stelle, racconta l’evoluzione del tessuto produttivo italiano.

Tridico segnala che:

Negli ultimi 30 anni, il sistema economico italiano ha vissuto un cambiamento strutturale e istituzionale, sintetizzatore in quel processo che ci ha portati verso una terziarizzazione dell’economia, con una graduale riduzione della quota lavoro in agricoltura e nell’industria, a favore dei servizi. Oggi quasi il 73% della forza lavoro in Italia è impiegata nei servizi, circa il 23,5% nell’industria, e il 3,5% in agricoltura. Trenta anni fa il settore industriale impiegava oltre il 31% della forza lavoro, prevalentemente concentrato nel settore manifatturiero.

Tali processi sono naturali nei sistemi economici complessi, caratterizzati da una transizione strutturale da settori maturi verso settori avanzati. Il problema sorge quando queste trasformazioni avvengono con un aumento in settori non avanzati dei servizi, a basso valore aggiunto, a scarso contenuto tecnologico, e quindi con scarsi guadagni di produttività, come turismo (ristorazione e alloggi), servizi alla persona. Il nostro Paese è caratterizzato negativamente da questa transizione verso servizi “non avanzati”.

Tridico evidenzia come in Italia siano carenti, rispetto ai paesi del Nord Europa, gli investimenti in settori Ict, dei servizi alle imprese, dell’elettronica avanzata, della biomedica, delle nanotecnologie, dell’automotive avanzato, e in Ricerca e Sviluppo.

L’Italia è troppo concentrata in quella che Tridico chiama economia da bar:

Nell'”economia da bar”, per quanto si possano fare buoni caffè, ottime pizze ed eccellenti mozzarelle, non ci sono margini sufficienti per creare guadagni di produttività e valore aggiunto competitivi rispetto all’innovazione prodotta dai Paesi del Nord Europa nei settori dei servizi avanzati, caratterizzati da investimenti capital intensive.

Tridico lamenta che, invece che promuovere innovazione, capace di generare valore aggiunto importante, aumentare la produttività e permettere salari crescenti, le regole di mercato, nell’industria e nel mercato del lavoro (…) hanno affiancato negativamente tale trasformazione, incentivando investimenti labour intensive che fanno perno su bassi salari, su flessibilità del lavoro che sfocia in precarietà diffusa, su contratti collettivi pirata senza minimi legali dignitosi, su defiscalizzazione e decontribuzione generalizzata del lavoro, con sussidi a pioggia per gli investimenti e per le assunzioni.

A Tridico potremmo ribattere che l’ultimo provvedimento organico per la promozione degli investimenti e dell’innovazione, prima dell’attuale PNRR impostoci dall’Unione Europea, è stato il piano Industria 4.0 dell’odiato Governo Renzi, mentre il governo Lega – Movimento 5 stelle, che lo ha nominato all’INPS, ha sperperato miliardi di euro in spese improduttive: bonus fiscali esagerati per ristrutturazione edilizie (costo a saldo per lo Stato 55 miliardi di euro), pensione quota 100 non correlata ai contributi versati (costo per lo Stato 30 miliardi di euro), reddito di cittadinanza che ha tenuto sedute sul divano o a lavorare al nero oltre 2 milioni di persone  (totale dal 2019 al 2022 costo totale 28 miliardi: 2019 4 miliardi, 2020 7 miliardi, 2021 9 miliardi, 2022 8 miliardi). Totale di spesa 113 miliardi. Per dare un’idea delle somme sperperate, l’investimento sull’industria del piano Industria 4.0 è stato solo di 23 miliardi di euro. Prova a immaginare l’effetto che avremmo potuto avere aggiungendo non dico tutti e 113, ma almeno altri 50 miliardi di euro al piano industria 4.0.

Ma questo non è l’unico punto. L’altra cosa che voglio evidenziare, dell’articolo di Tridico, è la descrizione della fragilità del sistema produttivo italiano, dove una parte consistente delle imprese è impegnata in servizi a basso valore aggiunto e perciò utilizza il più possibile bassi salari, flessibilità diffusa, contratti collettivi pirata, etc. Ma ne approfittano anche grandi imprese come ad esempio l’azienda di trasporti BRT e Esselunga.

Come disincentivare i contratti a termine

Ci sono vari modi per disincentivare i contratti a termine. Secondo l’articolo Strumenti per mettere un freno ai contratti a termine è possibile:

  • vietare i contratti a termine, per tutti i settori o solo per alcuni, per tutti i motivi o solo per alcuni
  • aumentare il costo del lavoro per contratti a termine e/o dare sgravi in caso di trasformazione di un contratto a termine in contratto a tempo indeterminato
  • permettere una percentuale massima di lavoratori a termine o di ore lavorate da lavoratori termine sul totale dei lavoratori o delle ore lavorate da tutti i lavoratori
  • limitare la durata massima dei contratti a termine
  • ridurre o impedire di stipulare più di un contratto a termine con lo stesso lavoratore in un dato periodo di tempo.

Si tratta però di misure di corto respiro che, se applicate in modo rigorosa, provocheranno la chiusura o la scomparsa nella completa illegalità di un numero significativo di imprese italiane, e il notevole aumento dei prezzi dei prodotti dei settori che si basano sui bassi salari, ad esempio dei prodotti agricoli e delle consumazioni al bar o al ristorante. Con dipendenti tutti assunti regolarmente e a tempo indeterminato finiremo di meravigliarci dell’elevato costo delle consumazioni quando visitiamo la Germania o la Svizzera. Credo anche che in molte famiglie il costo delle badanti subirebbe un aumento notevole.

Come scrive Tridico, per ridurre strutturalmente il precariato è necessario modificare in meglio la struttura produttiva italiana.

Il divieto dei contratti a termine: il caso della Spagna

Nel 2021 il governo spagnolo ha introdotto una legge che limita fortemente la possibilità di stipulare contratti a termine. Il risultato è stato un aumento notevole dei contratti a tempo indeterminato e la corrispondente riduzione massiccia dei contratti a termine.

Va evidenziato però che la legge ha anche aumentato le possibilità di licenziare lavoratori assunti a tempo indeterminato e ha ridotto i costi dei licenziamenti. L’articolo Spagna: al via la riforma del mercato del lavoro ci spiega che:

Con riferimento ai licenziamenti, si interviene su più fronti. L’indennità per licenziamento senza giusta causa si riduce da 45 a 33 giorni per anno di impiego, e per un massimo, non più di 42, ma di 24 mesi. [perciò massimo 2 mensilità, vedi Fondazione Anna Kuliscioff, Mercato del Lavoro News n. 146 Il flagello biblico del precariato nell’immaginario sindacale e la sua consistenza reale] L’obiettivo è quello di accorciare le distanze tra lavoratori stabili e lavoratori precari, combattere il dualismo del mercato del lavoro.

Non solo, ed è qui probabilmente la novità più rilevante: se dai risultati dell’impresa dovesse emergere una situazione economica negativa, come l’esistenza di perdite, attuali o anche soltanto previste, o la diminuzione persistente (almeno 9 mesi consecutivi) degli ingressi o delle vendite, il licenziamento diventerebbe per giusta causa, con conseguente indennità a 20 giorni per anno di anzianità, e per un massimo di 12 mesi. [perciò massimo 1 mensilità]

L’esperimento spagnolo conferma quanto ho detto sopra: in Paesi con una struttura economica fragile, come l’Italia, la presenza di lavoratori con tutele molto elevate (e, nel caso dell’Italia, con elevati oneri sociali sul lavoro dipendente) obbliga, per non affossare il sistema, ad autorizzare altre forme contrattuali precarie.

In sintesi, quali misure contro il precariato

In sintesi sono possibili varie misure contro il precariato:

  • aumentare i controlli dell’Ispettorato del lavoro contro il lavoro al nero
  • penalizzare (in termini di costo, possibilità di rinnovo) il lavoro a termine (ma senza esagerare)
  • rendere più facili i licenziamenti dei lavoratori a tempo indeterminato
  • migliorare ulteriormente il supporto sia economico che di orientamento a persone che perdono il lavoro
  • migliorare i servizi di orientamento e formazione in modo da evitare che le persone si appiattiscano su una serie continua di lavori a termine a bassa qualificazione
  • aumentare gli stipendi riducendone il costo lordo per il datore di lavoro
  • promuovere lo sviluppo del tessuto economico italiano verso produzioni a più elevato valore aggiunto.

 

Articolo contenuto sul sito www.orientamento.it. Autore Leonardo Evangelista. Leonardo Evangelista si occupa di orientamento dal 1993.Riproduzione riservata. Vedi le indicazioni relative a Informativa Privacy, cookie policy e Copyright.

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