Quando il trauma è narrato dagli altri: la vittimizzazione secondaria e il rischio della drammatizzazione retroattiva

L’episodio

Un adulto ripensa a un episodio della propria infanzia. Aveva 7 o 8 anni e, durante un gioco un coetaneo, gli ha imposto un atto di natura sessuale.  Una esperienza in quel momento spiacevole, ma al pari di altre, come quando ad esempio qualcuno gli ha rubato la merenda, distrutto le costruzioni di Lego, o l’ha costretto a partecipare a un gioco noioso.

L’adulto oggi non si sente traumatizzato, ma si pone una domanda: “È stata una forma di abuso?” E scrive su un forum pubblico, chiedendo: “Sono stato violentato?”


1. Le ambiguità della coercizione infantile

Nel gioco tra bambini, la coercizione può esistere – ma non sempre è sintomo di violenza nel senso adulto del termine. I bambini si impongono l’uno sull’altro in mille modi: esercitano piccoli poteri, testano limiti, talvolta si ribellano, altre volte subiscono. Secondo lo psicologo Jean Piaget (1932), il gioco infantile è una palestra per apprendere la negoziazione delle regole, e comprende momenti di egocentrismo morale in cui il bambino non riconosce ancora pienamente l’altro come soggetto autonomo. È normale che ci siano tensioni, diseguali esercizi di potere, e perfino momenti in cui un bambino impone un’attività al compagno.

Nel caso di giochi con connotazioni sessuali – spesso agiti senza piena consapevolezza del significato – è quindi possibile che si verifichi una coercizione episodica, limitata, priva di progettualità o intenzionalità adulta. Il fatto che uno dei due sia stato più assertivo, più curioso, o più deciso non equivale automaticamente a un abuso nel senso clinico o giuridico del termine.


2. La memoria ambigua e il potere delle narrazioni

Se la persona adulta non ricorda di essersi sentita violata, spaventata o umiliata – ma solo un po’ a disagio o confusa – questo dato va rispettato. La memoria autobiografica, come ci insegna Ulric Neisser (1982), è ricostruita e continuamente aggiornata in base ai contesti sociali, ai discorsi culturali, alle reazioni degli altri. Raccontare oggi un episodio del passato significa, spesso, reinterpretarlo alla luce di linguaggi e concetti che all’epoca non esistevano.

Scrivere su un forum come Reddit espone la persona a un’ondata di interpretazioni: utenti benintenzionati ma spesso rigidi rispondono che sì, è stato un abuso, che quella è violenza sessuale infantile, che deve elaborare il trauma. Così, chi partiva da una domanda aperta si trova di fronte a una etichettatura (Becker, 1963) che può ristrutturare radicalmente il significato dell’esperienza.


3. Quando il trauma viene suggerito: la vittimizzazione secondaria

La persona che pone la domanda non cercava diagnosi, ma significato. Non esprimeva dolore, ma dubbio. E tuttavia, le risposte degli altri – per quanto animate da buone intenzioni – possono indurre nella persona un senso di colpa, vergogna, rabbia, o il sospetto di avere rimosso qualcosa. Questo processo è noto come vittimizzazione secondaria (Campbell & Raja, 1999): l’interazione sociale e i discorsi pubblici possono creare sofferenza dove inizialmente non c’era, o trasformare una perplessità in una ferita.

Questo non significa negare che alcuni episodi siano traumatici. Ma vuol dire riconoscere che il trauma è un vissuto, non un’etichetta. Come ricorda Judith Herman (1992), un’esperienza è traumatica se la persona la percepisce come tale. Non basta che l’evento sia “classificabile” dall’esterno come abuso per concludere che chi lo ha vissuto debba per forza sentirsi violato.


4. Fragilità imposta e cultura dell’iperinterpretazione

Frank Furedi (2004), nella sua critica alla “cultura terapeutica”, descrive una società che promuove una vulnerabilità prescritta: se hai vissuto una certa esperienza, devi essere ferito. Se non lo sei, significa che sei dissociato, che neghi, che non hai ancora compreso la portata dell’evento. Questa logica ha il paradossale effetto di imporre la sofferenza anche dove non è originaria.

Nel nostro caso, dire a una persona “sei stato vittima di violenza sessuale” quando lei non lo sente come tale, può produrre un danno. Perché nega la sua interpretazione soggettiva. E la costringe a rivivere un evento alla luce di codici che non le appartengono.


5. Una risposta diversa: sospendere il giudizio, ascoltare il significato

Quando qualcuno racconta un episodio ambiguo, soprattutto se vissuto da bambino, la reazione più matura non è quella che formula un giudizio affrettato. La risposta più rispettosa potrebbe essere:
“Ti va di parlarne di più?”
“Cosa senti oggi, quando ci pensi?”
“Che significato ha per te quell’episodio?”

Solo così si può evitare l’imposizione di un’identità da vittima, e accompagnare la persona in un percorso che le appartenga davvero. Dove l’eventuale trauma non è diagnosticato dagli altri, ma – se c’è – emerge dal proprio sentire. E dove l’ambiguità non è vista come un errore da correggere, ma come una forma legittima della memoria.


Bibliografia

  • Bartlett, F. C. (1932). Remembering: A Study in Experimental and Social Psychology. Cambridge University Press.
  • Becker, H. S. (1963). Outsiders: Studies in the Sociology of Deviance. Free Press.
  • Campbell, R., & Raja, S. (1999). Secondary victimization of rape victims: Insights from mental health professionals who treat survivors of violence. Violence and Victims, 14(3), 261–275.
  • Furedi, F. (2004). Therapy Culture: Cultivating Vulnerability in an Uncertain Age. Routledge.
  • Herman, J. (1992). Trauma and Recovery. Basic Books.
  • Neisser, U. (1982). Memory Observed: Remembering in Natural Contexts. W.H. Freeman.
  • Piaget, J. (1932). Le jugement moral chez l’enfant. Presses Universitaires de France.

Articolo contenuto sul sito www.orientamento.it. Autore Leonardo Evangelista. Vedi le indicazioni relative a Informativa Privacy, cookie policy e Copyright.