L’intelligenza artificiale ridimensiona il ruolo dell’università come luogo deputato alla produzione del sapere

Un passato glorioso

Per secoli, l’università è stata considerata il luogo per eccellenza dove il sapere veniva custodito, creato e trasmesso. Nel corso della modernità, soprattutto con l’avvento dell’università moderna e del modello di ricerca accademica, si è consolidata una sorta di egemonia epistemica: l’università come unico o principale spazio legittimo di produzione del sapere. Chi voleva contribuire allo sviluppo della conoscenza, doveva passare da lì. Le pubblicazioni scientifiche, la peer review, i titoli accademici: tutti strumenti che, nel tempo, hanno costruito e rafforzato una gerarchia tra chi è “autorizzato a dire cose” e chi, pur avendo idee e intuizioni, restava fuori dal recinto.

Oggi, tutto questo viene messo in discussione. E non si tratta solo di una crisi temporanea, ma dell’inizio di un cambiamento che appare strutturale e irreversibile. Al centro di questa trasformazione vi è una tecnologia che, per portata e velocità, non ha precedenti: l’intelligenza artificiale generativa.

Il sapere si è fatto leggero

L’intelligenza artificiale – e in particolare i modelli linguistici di grandi dimensioni (Large Language Models) come ChatGPT, Claude, Gemini o LLaMA – ha trasformato la produzione del sapere da un’impresa lenta, costosa e gerarchica a un’operazione istantanea, diffusa, potenzialmente accessibile a tutti. Basta porre la giusta domanda, e l’IA restituisce un testo coerente, spesso ben argomentato, in grado di spiegare, sintetizzare, parafrasare, comparare, riformulare.

Ciò che fino a ieri richiedeva settimane, mesi o anni di studio, accesso a biblioteche specialistiche, familiarità con i linguaggi accademici e con le convenzioni disciplinari, oggi può essere ottenuto da chiunque, spesso in pochi minuti. Questo non significa che la qualità dei contenuti generati dall’IA sia sempre impeccabile. Ma il punto non è questo, la qualità dei contenuti è destinata ad aumentare col perfezionamento dei modelli linguistici. Il punto è che l’asimmetria tra chi “sa” e chi “non sa” si è drasticamente ridotta. E con essa l’autorità epistemica dell’università.

Un cambiamento già iniziato: il web e l’autoproduzione del sapere

Già con l’avvento di Internet si era assistito a una prima, poderosa ondata di disintermediazione. Blogger, youtuber, podcaster, divulgatori: persone spesso esterne al mondo accademico hanno iniziato a guadagnare attenzione, fiducia e autorità, costruendo canali di comunicazione diretta con milioni di utenti. Alcuni sono diventati vere e proprie celebrità della cultura, capaci di influenzare l’opinione pubblica, ispirare comportamenti, orientare decisioni.

La novità, rispetto all’epoca precedente, non era solo nella possibilità tecnica di pubblicare contenuti, ma nell’efficacia con cui questi contenuti potevano raggiungere il pubblico. Algoritmi di raccomandazione, reti sociali, motori di ricerca: l’intero ecosistema digitale è strutturato per premiare la visibilità, non la titolarità accademica. Se un divulgatore spiega Kant in modo chiaro, coinvolgente e visualmente efficace su YouTube, difficilmente uno studente o un curioso preferirà consultare un articolo accademico in tedesco, pubblicato su una rivista a pagamento e comprensibile solo a specialisti, o acquisterà un libro di un docente italiano.

L’intelligenza artificiale accelera e radicalizza

A questo processo già in corso, l’IA aggiunge un elemento decisivo: la possibilità per chiunque di produrre sapere in modo autonomo. Non solo accedere al sapere esistente, come già permetteva il web, ma contribuire attivamente alla sua generazione e diffusione. L’IA può assistere nella scrittura di articoli, nella revisione grammaticale, nella traduzione automatica, nella sintesi di fonti, nella formulazione di ipotesi, nell’analisi semantica, nella simulazione di dibattiti.

Un ricercatore indipendente, un libero pensatore, un autodidatta con un buon background e una mente vivace, oggi può costruire un saggio o un libro con strumenti accessibili e performanti, senza dover passare da riviste specialistiche, comitati editoriali o iter di pubblicazione lunghi e selettivi. In alcuni casi, questi autori indipendenti riescono a produrre contenuti che sono più letti, condivisi e discussi di molti articoli accademici. E questo non perché siano “migliori” in senso assoluto, ma perché sono costruiti con una logica di comunicazione più efficace e orientata all’impatto.

La marginalizzazione delle scienze umane

Questo fenomeno ha un impatto ancora più forte nelle scienze umane: l’IA colpisce proprio al cuore delle scienze umane: la capacità di analizzare, interpretare, argomentare. Se questi processi vengono automatizzati – e oggi lo sono, almeno in parte – la specificità epistemica di queste discipline viene messa in crisi. Non c’è più bisogno di passare per una lunga carriera accademica per scrivere una buona sintesi del pensiero di Foucault o per costruire una genealogia dell’individualismo moderno. L’IA può farlo. E lo può fare su scala, in tutte le lingue, a tutte le ore, con uno stile adattabile ai diversi pubblici.

La fine del monopolio

Ciò che viene eroso, quindi, è il monopolio dell’università nella produzione del sapere umanistico. In passato, solo un professore poteva legittimamente parlare di Aristotele, e solo attraverso l’articolo peer-reviewed o il manuale universitario. Oggi chiunque può farlo, e spesso lo fa con strumenti più agili, un linguaggio più accessibile, e una capacità comunicativa più efficace.

La fine di questo monopolio non significa necessariamente che l’università sparirà. Ma significa che il suo potere simbolico e sociale verrà ridotto. Il titolo accademico non sarà più il lasciapassare obbligatorio per chi vuole contribuire alla cultura. Le riviste scientifiche non saranno più l’unico canale attraverso cui veicolare idee. La docenza universitaria non sarà più la principale piattaforma di visibilità per un intellettuale.

Sapere popolare, sapere algoritmico

Si sta affermando un nuovo modello di sapere, che potremmo chiamare “sapere popolare algoritmico”: una forma di conoscenza generata, validata e diffusa attraverso le logiche del web e delle IA. Questo sapere non si basa su titoli, ma su visibilità. Non si legittima per la sua conformità a standard metodologici, ma per la sua capacità di risuonare con un pubblico. È un sapere fluido, ibrido, contaminato, spesso semplificato ma non per questo irrilevante.

Molti dei nuovi protagonisti di questo sapere sono ibridi: divulgatori che usano IA per preparare contenuti, accademici che pubblicano su Substack invece che su riviste specialistiche, studenti che creano canali YouTube per spiegare concetti filosofici usando meme, video e narrazioni interattive. Il sapere non ha più una sola casa, né un solo linguaggio.

La crisi d’identità dell’università

Questo scenario mette in crisi l’identità stessa dell’università. Se chiunque può produrre sapere, chiunque può insegnare, chiunque può costruire contenuti di qualità, qual è allora il ruolo distintivo dell’istituzione accademica? E più ancora: se non ne ho bisogno perché richiesto dalla legge, perché dovrei investire anni e denaro per ottenere un titolo, quando posso costruire un pubblico, una reputazione e un impatto attraverso canali alternativi, e spesso più rapidi?

In passato, l’università era un passaggio obbligato per chi voleva essere ascoltato. Oggi è una delle opzioni possibili. E per molti, non è neanche la più efficace. Gli algoritmi di IA, uniti alla logica delle piattaforme, premiano chi riesce a creare contenuti interessanti, ben scritti, emozionanti, facilmente condivisibili. E l’università, strutturata su tempi lunghi, linguaggi specialistici e valutazioni formali, rischia di rimanere indietro.

Articolo contenuto sul sito www.orientamento.it. Autore Leonardo Evangelista. Leonardo Evangelista si occupa di orientamento dal 1993 e di formazione dal 2004. Riproduzione riservata. Vedi le indicazioni relative a Informativa Privacy, cookie policy e Copyright.