La politica estera americana sotto la presidenza Trump II

Le cause della nuova politica estera statunitense

L’articolo Il nuovo credo della rivoluzione americana pubblicato da Federico Petroni su “Limes” descrive in profondità l’approccio geopolitico e strategico  di Donald Trump, e ne mette in luce le implicazioni interne e internazionali. La rivoluzione americana in atto si manifesta come una rottura radicale con il passato universalista degli Stati Uniti e una ridefinizione delle priorità geopolitiche in chiave imperiale ma limitata.

La svolta attuale è dovuta a tre motivi principali:

  1. le dimensioni enormi assunte dal deficit americano: la spesa per il pagamento degli interessi sul debito pubblico americano ha superato gli stanziamenti per la difesa, vedi Gli Stati Uniti e il limite di Ferguson: debito pubblico, spesa militare e il declino delle grandi potenze.  L’aumento del debito  è dovuto a varie cause fra cui la globalizzazione che ha portato alla deindustrializzazione degli Stati Uniti (vedi il punto successivo)
  2. la rovina della classe media e operaia statunitense dovuta alla globalizzazione, ben descritta nell’opera autobiografica Elegia Americana dell’attuale vicepresidente J.D. Vance. Vedi anche il film America Lost. La Cina è stata il principale beneficiario della globalizzazione
  3. l’odio dei sostenitori di Trump per le élite americane cosmopolite favorevoli alla globalizzazione e all’ideologia woke.

Aspetti della nuova politica estera statunitense

Secondo Petroni, il primo elemento rivoluzionario è l’abbandono dell’universalismo: gli Stati Uniti smettono di offrire se stessi come modello per l’umanità, e abbandonano la pretesa di guidare l’ordine globale post-1945. Invece, decidono di sfruttare l’impero per i propri fini, riducendo le spese di deterrenza e riconoscendo la legittimità degli interessi altrui.

L’America non ha più i mezzi per sostenere una guerra contro un rivale alla pari. La deterrenza è svanita. Le risorse industriali e militari sono insufficienti, il consenso popolare al sacrificio è assente. Di conseguenza, la priorità diventa evitare conflitti aperti e guadagnare tempo attraverso la diplomazia. L’obiettivo è contenere la Cina – soprattutto sul piano dell’intelligenza artificiale – e non necessariamente sconfiggerla. La competizione tecnologica è vista come il terreno decisivo per il futuro predominio globale.

L’America diventa così una potenza fra le altre, pronta a negoziare opportunisticamente i propri interessi. Non ci sono più alleanze durature, ma allineamenti temporanei e flessibili.

La questione di Taiwan viene riletta in chiave pragmatica: l’isola è importante, ma non a costo di una guerra diretta con la Cina. Si punta quindi a rafforzare la difesa taiwanese, pur negando l’indipendenza formale. Anche la Russia viene riconsiderata: meglio dialogare con Mosca per dividerla da Pechino e per evitare una saldatura tra i fronti antiamericani.

L’Europa perde centralità. La NATO viene gradualmente svuotata e gli europei sono spinti a riarmarsi senza più fare affidamento sul supporto incondizionato degli USA. Washington cerca ora di sfruttare il continente, disarticolando l’UE e valorizzando collaborazioni settoriali, in particolare con quei paesi disposti ad assumersi responsabilità di difesa regionale.

Tra le necessità operative: reindustrializzazione (meno finanza, più manifattura), uso strategico dei dazi, controllo sulle risorse naturali necessarie all’intelligenza artificiale, e sfruttamento dell’impero per ottenere vantaggi unilaterali – non più per redistribuire ricchezza agli alleati. Gli Stati Uniti devono ora ricentrare il loro potere sul “Forte Nord America”, difendendo la sfera emisferica più che l’ordine globale.

La sinistra liberal, le élite manageriali e culturali che hanno promosso la globalizzazione e il wokismo sono il nemico interno. L’America è in crisi morale e culturale, e la risposta è una “rivoluzione morale” che implichi anche il rovesciamento delle élite attuali. Il governo federale è considerato inefficiente, burocratico e tecnocratico, e il debito pubblico minaccia la stabilità economica. In questo contesto, la rivoluzione trumpiana è anche una chiamata al “cambio di regime” interno: una purga della burocrazia progressista e un rafforzamento dell’autorità presidenziale e degli Stati federali.

Ma questa rivoluzione americana presenta gravi contraddizioni. Tutto si muove simultaneamente, senza una vera strategia, con eccessivo personalismo e senza costruzione di consenso. Gli alleati non si fidano, mentre i rivali – pur in difficoltà interne – possono approfittarne. La brutalità negoziale rischia di isolare ulteriormente Washington. L’attacco simultaneo a istituzioni, alleanze e ideologie potrebbe generare instabilità invece che rinascita. Infine, gli stessi elettori americani chiedono soluzioni pragmatiche – meno burocrazia sì, ma anche servizi pubblici funzionanti, città vivibili e infrastrutture moderne – che l’attuale retorica anti-statalista non sembra in grado di offrire.

La rivoluzione americana, dunque, è reale ma fragile: senza un riequilibrio tra potenza e consenso, tra innovazione e stabilità, rischia di trasformarsi in una ribellione permanente contro se stessa.

L’analisi di Eugenio Capozzi

Secondo Eugenio Capozzi:

i dazi di Trump sono “la presa d’atto del fatto che un’epoca storica è giunta alla conclusione e ne sta iniziando un’altra dalle caratteristiche diverse.

L’epoca al tramonto è evidentemente quella della globalizzazione “a trazione cinese”, o più in generale asiatica, che ha dominato l’economia e la politica mondiale nell’ultimo trentennio. È stato il periodo in cui si è verificato un gigantesco riequilibrio del potere economico e politico mondiale. Una parte consistente dell’umanità (quasi l’intera Asia, parte dell’Africa e dell’America latina) ha conosciuto una spettacolare crescita economica, riducendo enormemente le sue sacche di povertà e – nel caso di Cina e India – configurandosi come potenza planetaria con peso ormai comparabile a quello degli Stati Uniti e dell’Occidente.

Dall’altra parte l’Occidente, pur mantenendo complessivamente un margine di leadership nelle punte più tecnologicamente avanzate dell’economia, ha subìto invece un significativo ridimensionamento, e soprattutto ha dovuto affrontare una drammatica lacerazione sociale al proprio interno, e un rilevante abbassamento del livello di vita e di aspettative di larga parte delle proprie popolazioni. Questo perché la globalizzazione di fine XX e inizio XXI secolo si è fondata su un clamoroso dumping (concorrenza al ribasso) prodotto dalla versione asiatica, e in particolare cinese, dell’economia di mercato: un’organizzazione della produzione orientata essenzialmente sull’esportazione, e fondata su un costo molto basso della mano d’opera e della produzione.

Questa concorrenza ha mandato all’aria l’industria manifatturiera occidentale, e con essa gli equilibri delle società industrializzate “affluenti”, caratterizzati fino ad allora da un certo grado di stabilità occupazionale, dall’aspirazione generalizzata alla crescita di retribuzioni e consumi, e da quella alla upward mobility (l'”ascensore sociale”, cioè le aspettative di tenore di vita e di status più alti). La delocalizzazione della produzione in paesi più convenienti per le imprese, la desertificazione delle classi operaie e dei ceti medi, una tendenza strutturale alla deindustrializzazione e alla stagnazione hanno diviso drasticamente le società occidentali in super-élites competitive (sostanzialmente i vertici delle imprese hi tech e della grande finanza) e “plebi” impoverite, precarizzate ed avvilite. Per cercare di fronteggiare in qualche modo la deriva “asia-centrica” una parte dell’Occidente – l’Europa raggruppata nell’Unione europea intorno all’asse franco-germanico – ha ristrutturato le proprie economie in qualche modo imitandone quel modello: bassi salari, bassi consumi, una moneta comune artificialmente svalutata per favorire al massimo le esportazioni, regolamentazioni e sussidi per favorire le proprie maggiori imprese. Facendo, a sua volta, dumping nei confronti degli Stati Uniti.

Ora, la politica daziaria di Trump – proseguimento ampiamente annunciato di un processo iniziato già con il primo conflitto doganale del 2018 con Cina ed Europa – rappresenta il tentativo di invertire decisamente la rotta rispetto a quella deriva, riequilibrando l’enorme deficit della bilancia commerciale accumulato dagli Stati Uniti. I suoi obiettivi dichiarati sono: riattrarre capitali e investimenti dall’estero; rinegoziare l’altrettanto enorme debito pubblico del paese con i suoi creditori; ricondurre per quanto possibile l’economia americana verso la prevalenza della produzione industriale sulla finanza; incrementare occupazione, salari, domanda interna.

Non è un caso che i bersagli principali dell’offensiva statunitense siano la Cina, i paesi indocinesi e dell’Estremo oriente strettamente legati a Pechino e la Germania: i principali agenti del dumping globale.”

Articolo contenuto sul sito www.orientamento.it. Autore Leonardo Evangelista. Riproduzione riservata. Vedi le indicazioni relative a Informativa Privacy, cookie policy e Copyright.