Il bello e il brutto della globalizzazione

Se ti stai chiedendo quali sono i vantaggi della globalizzazione, in questa pagina trovi alcune risposte.

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Cos’è la globalizzazione

Secondo Wikipedia, la globalizzazione (conosciuta anche come mondializzazione) è il fenomeno causato dall’intensificazione degli scambi economico-commerciali e degli investimenti internazionali su scala mondiale che, nei decenni tra XX e XXI secolo, sono cresciuti più rapidamente dell’economia mondiale nel suo complesso, con la conseguenza di una tendenzialmente, sempre maggiore, interdipendenza delle economie nazionali. Tutto ciò ha portato anche a interdipendenze sociali, culturali, politiche, tecnologiche e sanitarie i cui effetti positivi e negativi hanno una rilevanza planetaria, unendo il commercio, le culture, le tradizioni, i costumi, il pensiero e i beni culturali.

Secondo alcuni, tra gli aspetti positivi della globalizzazione vanno evidenziati la velocità delle comunicazioni e della circolazione di informazioni, l’opportunità di crescita economica per nazioni a lungo rimaste ai margini dello sviluppo economico mondiale, la contrazione della distanza spazio-temporale e la riduzione dei costi per l’utente finale grazie all’incremento della concorrenza su scala planetaria.

Nella visione di altri, gli aspetti negativi di tale processo sono lo sfruttamento, il degrado ambientale, il rischio dell’aumento delle disparità sociali, la perdita delle identità locali, l’aumento del potere di aziende economiche multinazionali a discapito delle sovranità nazionali e dell’autonomia delle economie locali, la diminuzione della privacy.

Effetti positivi della globalizzazione

La disponibilità di prodotti a prezzo ridotto

Se sul mercato trovi a prezzo ridotto migliaia di prodotti elettronici (pc, televisori, telefonini, etc., ad esempio su Amazon) e scarpe e abbigliamento (ad esempio nelle grandi catene di vendita come OVS) il merito è della globalizzazione. Se questi prodotti fossero prodotti in Italia invece che in Cina, India, Bangladesh, etc. il costo sarebbe triplo o quadruplo.

E ugualmente devi ringraziare la globalizzazione se puoi acquistare un’autovettura nuova a soli 14.000 €. Se fosse prodotta in Italia invece che in Turchia, Tunisia, Corea, etc., la stessa auto costerebbe il doppio o il triplo.

La disponibilità di personale a costo ridotto

Devi ringraziare la globalizzazione se una badante oggi in Italia costa solo 1.200 € al mese. Se non ci fossero badanti dell’est Europa e Filippine, e il lavoro di badante fosse svolto solo da italiane, il costo sarebbe doppio o triplo.

Minore conflittualità internazionale

La globalizzazione crea interdipendenze reciproche fra stati, che diminuiscono la conflittualità. Se Taiwan e Cina non fossero così tanto coinvolte nel commercio internazionale, la Cina probabilmente avrebbe già invaso Taiwan.

La riduzione della diseguaglianza fra nazioni

Un recente articolo di Gavazzi e Alesina apparso su Il Corriere della Sera evidenziano un altro vantaggio della globalizzazione. Secondi gli autori:

Quarant’anni fa il reddito pro capite degli Stati Uniti era 24 volte maggiore di quello indiano, e questo anche tenendo conto del fatto che in India la maggior parte dei prodotti costa molto meno che in America. Oggi, nonostante l’India continui a restare relativamente povera, la distanza con gli Stati Uniti si è molto ridotta. La differenza nel reddito pro capite tra un cittadino statunitense e uno indiano si è dimezzata: da 24 a 12 volte. Il risultato è ancora più straordinario per la Cina: da 24 volte a 5

La riduzione della distanza fra paesi ricchi e paesi poveri è dovuta al miglioramento del reddito pro capite nei paesi poveri.

Effetti negativi della globalizzazione

La perdita di posti di lavoro nei paesi sviluppati

Se prodotti elettronici, abbigliamento e autovetture che arrivano sul mercato italiano possono essere prodotti a un costo pari alla metà o a un terzo di quello che costa produrli in Italia, è chiaro che gli occupati italiani in questi settori si riducono drasticamente.

La crescita delle diseguaglianze all’interno dei paesi sviluppati

Un altra novità degli ultimi 20 anni è la crescita delle diseguaglianze all’interno dei Paesi:

E’ molto aumentato il reddito dell’1 per cento più benestante dei cittadini, il cosiddetto «top 1 per cent». Negli Stati Uniti quarant’anni fa il 10 per cento del reddito nazionale prima delle tasse andava al top 1 per cent, oggi quella quota è salita al 20 per cento (sebbene la tassazione la riduca al 16 per cento). Il reddito della metà più povera della popolazione nello stesso arco di tempo è aumentato solo dell’un per cento (sebbene tasse e redistribuzione abbiano fatto salire quella quota al 21%.)

In Europa l’aumento della diseguaglianza è stato molto inferiore: in quarant’anni, prima di tasse e redistribuzione, la quota dei top 1 per cent è salita dal 7,5 per cento all’11 per cento. In Italia l’effetto è stato trascurabile: la quota di reddito nazionale che va all’1% più ricco è passata dal 7,5 al 9,4 per cento; i dati come appena detto si riferiscono a prima di tassazione e trasferimenti, che, una volta considerati, annullano l’aumento.

Leggi l’articolo su Il Corriere della Sera.

Come sta andando la globalizzazione

Secondo un articolo di Massimo Livi Bacci, cinque periodi caratterizzano la globalizzazione:

Il primo (1860-1913), fino alla prima Guerra Mondiale, caratterizzato dalla crescita del commercio internazionale, dalla complementarietà di Europa e America, dal crollo del costo degli scambi. Il secondo, che comprende le due Guerre Mondiali (1914-1945), di profonda crisi e regresso per i conflitti, le chiusure e il dilagare del protezionismo. Il terzo (1945-71), di ripresa, caratterizzato da cambi fissi. Il quarto, di liberalizzazione degli scambi e di forte e continua crescita (1972-2007). Il quinto, dalla grande crisi finanziaria a oggi (2008-2023), di stagnazione della globalizzazione (slowbalization), per l’aumento delle tensioni internazionale, le minori riforme, un minore consenso politico all’integrazione tra economie. (…)

Andamento della globalizzazione
Andamento della globalizzazione

Tuttavia negli ultimi due anni il rapporto tra valore degli scambi e PNL è perfino un po’ cresciuto, segno di un rafforzamento ulteriore degli scambi tra i paesi.

Chi ha vinto e chi ha perso nella globalizzazione

Branko Milanovic è un economista serbo-americano specializzato in disuguaglianza economica e globalizzazione. I suoi studi si concentrano sugli effetti della globalizzazione sulla distribuzione del reddito, sia a livello nazionale che globale. Ecco i principali temi e risultati delle sue ricerche:

1. La “Curva dell’Elefante” e la disuguaglianza globale

Uno dei contributi più noti di Milanovic è la “Curva dell’Elefante”, così chiamata per la forma che assume il grafico della crescita del reddito globale tra il 1988 e il 2008. Questo studio mostra come la globalizzazione abbia avuto effetti molto diversi sui vari gruppi di reddito nel mondo:

  • Crescita dei redditi nei paesi emergenti: La classe media nei paesi in via di sviluppo, in particolare in Cina e India, ha beneficiato notevolmente della globalizzazione, con un aumento significativo del reddito.
  • Crescita limitata per la classe media occidentale: Nei paesi sviluppati, la classe media ha visto una crescita del reddito stagnante o molto ridotta, generando risentimento verso la globalizzazione.
  • Crescita per l’1% più ricco: Le élite globali, soprattutto nei paesi avanzati, hanno visto un aumento significativo del loro reddito, contribuendo alla crescita della disuguaglianza all’interno dei singoli paesi.

2. La disuguaglianza tra paesi e al loro interno

  • Milanovic distingue tra disuguaglianza tra paesi e disuguaglianza all’interno dei paesi.
  • Negli ultimi decenni, la globalizzazione ha ridotto la disuguaglianza tra paesi (poiché paesi emergenti come Cina e India hanno recuperato terreno rispetto all’Occidente).
  • Tuttavia, ha aumentato la disuguaglianza all’interno di molti paesi, specialmente in quelli occidentali, dove i redditi più alti sono cresciuti molto più rapidamente di quelli della classe media e lavoratrice.

Negli ultimi 30 anni, il numero di persone che vivono in condizioni di povertà estrema è diminuito in modo significativo. Nel 1981, circa il 42% della popolazione mondiale viveva con meno di 1,90 dollari al giorno (la precedente soglia di povertà estrema, aggiornata a 2,15 dollari nel 2022). Oggi, questa percentuale si attesta attorno al 10%, nonostante la crescita della popolazione globale.ilbolive.unipd.it+2terredeshommes.it+2YouTrend+2

In termini assoluti, ciò significa che il numero di persone in povertà estrema è passato da quasi 2 miliardi negli anni ’80 a circa 700 milioni oggi, indicando che oltre 1,3 miliardi di persone sono uscite dalla povertà estrema in questo periodo.YouTrend

Questa riduzione è stata alimentata soprattutto dalla rapida crescita economica di Paesi come Cina e India, che in pochi decenni hanno fatto uscire dalla povertà milioni di persone. In Cina, ad esempio, la quota di popolazione che viveva con meno di due dollari al giorno è passata dal 91% negli anni Ottanta all’1% di oggi. Un trend simile si è registrato in India, passata dal 63% degli anni Settanta all’11% del 2018.ilbolive.unipd.it+2terredeshommes.it+2YouTrend+2

Tuttavia, è importante notare che la povertà rimane una sfida significativa in alcune regioni, in particolare nell’Africa subsahariana, dove il tasso di povertà è rimasto sostanzialmente invariato nel corso degli ultimi trent’anni e oggi il 40% della popolazione vive ancora con meno di due dollari al giorno.terredeshommes.it

4. Possibili soluzioni per una globalizzazione più equa

Milanovic propone alcune misure per rendere gli effetti della globalizzazione più equi:

  • Politiche fiscali più redistributive, come una maggiore tassazione dei redditi alti e della ricchezza.
  • Un maggiore accesso all’istruzione e alle opportunità economiche per la classe media e lavoratrice.
  • Riforme del sistema migratorio per gestire meglio le pressioni economiche e sociali.

Conclusione

Gli studi di Milanovic offrono una visione critica della globalizzazione, evidenziando sia i suoi benefici (la riduzione della povertà globale) che i suoi problemi (l’aumento della disuguaglianza nei paesi avanzati). Il suo lavoro è spesso citato nel dibattito sulle riforme necessarie per un capitalismo più sostenibile ed equo.

I dazi di Trump II

Secondo Eugenio Capozzi:

i dazi di Trump sono “la presa d’atto del fatto che un’epoca storica è giunta alla conclusione e ne sta iniziando un’altra dalle caratteristiche diverse.

L’epoca al tramonto è evidentemente quella della globalizzazione “a trazione cinese”, o più in generale asiatica, che ha dominato l’economia e la politica mondiale nell’ultimo trentennio. È stato il periodo in cui si è verificato un gigantesco riequilibrio del potere economico e politico mondiale. Una parte consistente dell’umanità (quasi l’intera Asia, parte dell’Africa e dell’America latina) ha conosciuto una spettacolare crescita economica, riducendo enormemente le sue sacche di povertà e – nel caso di Cina e India – configurandosi come potenza planetaria con peso ormai comparabile a quello degli Stati Uniti e dell’Occidente.

Dall’altra parte l’Occidente, pur mantenendo complessivamente un margine di leadership nelle punte più tecnologicamente avanzate dell’economia, ha subìto invece un significativo ridimensionamento, e soprattutto ha dovuto affrontare una drammatica lacerazione sociale al proprio interno, e un rilevante abbassamento del livello di vita e di aspettative di larga parte delle proprie popolazioni. Questo perché la globalizzazione di fine XX e inizio XXI secolo si è fondata su un clamoroso dumping (concorrenza al ribasso) prodotto dalla versione asiatica, e in particolare cinese, dell’economia di mercato: un’organizzazione della produzione orientata essenzialmente sull’esportazione, e fondata su un costo molto basso della mano d’opera e della produzione.

Questa concorrenza ha mandato all’aria l’industria manifatturiera occidentale, e con essa gli equilibri delle società industrializzate “affluenti”, caratterizzati fino ad allora da un certo grado di stabilità occupazionale, dall’aspirazione generalizzata alla crescita di retribuzioni e consumi, e da quella alla upward mobility (l'”ascensore sociale”, cioè le aspettative di tenore di vita e di status più alti). La delocalizzazione della produzione in paesi più convenienti per le imprese, la desertificazione delle classi operaie e dei ceti medi, una tendenza strutturale alla deindustrializzazione e alla stagnazione hanno diviso drasticamente le società occidentali in super-élites competitive (sostanzialmente i vertici delle imprese hi tech e della grande finanza) e “plebi” impoverite, precarizzate ed avvilite. Per cercare di fronteggiare in qualche modo la deriva “asia-centrica” una parte dell’Occidente – l’Europa raggruppata nell’Unione europea intorno all’asse franco-germanico – ha ristrutturato le proprie economie in qualche modo imitandone quel modello: bassi salari, bassi consumi, una moneta comune artificialmente svalutata per favorire al massimo le esportazioni, regolamentazioni e sussidi per favorire le proprie maggiori imprese. Facendo, a sua volta, dumping nei confronti degli Stati Uniti.

Ora, la politica daziaria di Trump – proseguimento ampiamente annunciato di un processo iniziato già con il primo conflitto doganale del 2018 con Cina ed Europa – rappresenta il tentativo di invertire decisamente la rotta rispetto a quella deriva, riequilibrando l’enorme deficit della bilancia commerciale accumulato dagli Stati Uniti. I suoi obiettivi dichiarati sono: riattrarre capitali e investimenti dall’estero; rinegoziare l’altrettanto enorme debito pubblico del paese con i suoi creditori; ricondurre per quanto possibile l’economia americana verso la prevalenza della produzione industriale sulla finanza; incrementare occupazione, salari, domanda interna.

Non è un caso che i bersagli principali dell’offensiva statunitense siano la Cina, i paesi indocinesi e dell’Estremo oriente strettamente legati a Pechino e la Germania: i principali agenti del dumping globale.”

Secondo Federico Rampini

i dazi imposti da Donald Trump sono stati il sintomo, più che la causa, di una crisi già in atto nella globalizzazione. Anche senza Trump, il sistema del commercio globale era diventato insostenibile, minato da squilibri profondi: iper-dipendenze produttive (es. microchip concentrati a Taiwan), squilibri nei consumi, eccessiva dipendenza di molte economie dalle esportazioni verso gli Stati Uniti.

Ngozi Okonjo-Iweala, direttrice del WTO, ha evidenziato come questi problemi abbiano reso la globalizzazione malsana e pericolosa. Anche la posizione della Cina all’interno del WTO, ancora ingiustamente privilegiata come “paese in via di sviluppo”, ha contribuito ad aggravare gli squilibri.

Michael Pettis, autore di riferimento su questi temi, sostiene che uno dei principali problemi della globalizzazione attuale è che molti paesi, per aumentare la loro competitività internazionale, hanno adottato un modello di crescita fondato sulla compressione dei salari.

In pratica, invece di stimolare l’economia interna aumentando i redditi delle famiglie (e quindi la domanda interna di beni e servizi), alcuni governi hanno mantenuto bassi i salari per rendere più convenienti i propri prodotti sui mercati esteri. Questo ha permesso loro di esportare di più e accumulare avanzi commerciali (surplus), ma ha avuto effetti collaterali pesanti:

  • Riduzione della domanda globale: se i salari restano bassi in molti paesi, le famiglie spendono meno e la domanda mondiale di beni e servizi si riduce, rallentando la crescita economica complessiva.

  • Competizione dannosa (“beggar-thy-neighbor”): ogni paese che abbassa i salari per vendere di più all’estero danneggia indirettamente i suoi partner commerciali, che a loro volta subiscono un calo della domanda interna e sono spinti a difendersi abbassando i propri salari o imponendo dazi. Si crea così una spirale di tensioni economiche.

Secondo Pettis, questo tipo di globalizzazione non è sostenibile: non si può pensare che tutti i paesi crescano contemporaneamente solo esportando, perché qualcuno deve pur essere disposto a comprare. Se tutti cercano di vendere molto e consumare poco, il sistema si inceppa.

Per risolvere il problema, Pettis propone la creazione di un nuovo sistema multilaterale (simile a quello immaginato da Keynes a Bretton Woods) che:

  • imponga regole per mantenere l’equilibrio negli scambi commerciali tra paesi,
  • penalizzi chi accumula troppi surplus a danno degli altri,
  • promuova una crescita più equilibrata basata sull’espansione della domanda interna, non solo sulle esportazioni.

Contraddizioni della globalizzazione economica

La riduzione dei dazi e tariffe promuove il commercio internazionale, permettendo l’acquisto di beni a costo più basso, e migliorando la produttività e il livello di reddito nei paesi esportatori. Tuttavia l’apertura al commercio internazionale causa licenziamenti nelle imprese locali che subiscono la concorrenza delle merci importate. Come risolvere il problema?

La riduzione di dazi e tariffe può stimolare il commercio internazionale e portare benefici economici, ma può anche avere conseguenze negative sulle imprese locali e sull’occupazione. Per mitigare questi effetti negativi, si possono adottare diverse strategie:

1. Politiche di compensazione per i lavoratori colpiti

  • Sussidi di disoccupazione e ammortizzatori sociali: Aiutare temporaneamente i lavoratori licenziati con sostegni finanziari mentre cercano un nuovo impiego.
  • Riqualificazione professionale: Programmi di formazione per sviluppare nuove competenze, in particolare nei settori in crescita (es. tecnologia, energia rinnovabile, servizi digitali).
  • Incentivi alla mobilità lavorativa: Supporti economici per chi deve trasferirsi in altre regioni con maggiori opportunità.

2. Politiche di supporto alle imprese locali

  • Sostegno alla riconversione industriale: Aiutare le aziende locali a innovare e adattarsi alla concorrenza globale con incentivi per la digitalizzazione e l’automazione.
  • Accesso agevolato al credito: Offrire finanziamenti a tassi ridotti per le imprese che investono in innovazione o diversificazione.
  • Politiche industriali mirate: Sostegno ai settori strategici che possono competere a livello globale attraverso ricerca e sviluppo (R&S).

3. Regolamentazione del commercio internazionale

  • Clausole di salvaguardia: Meccanismi per proteggere temporaneamente i settori più vulnerabili, concedendo loro tempo per adattarsi alla concorrenza internazionale.
  • Norme sul commercio equo: Garantire che i paesi partner rispettino standard lavorativi e ambientali per evitare il dumping sociale e ambientale.

4. Diversificazione economica e sviluppo di nuovi settori

  • Investire in settori ad alto valore aggiunto: Promuovere l’industria della conoscenza, il digitale, la green economy e i servizi avanzati.
  • Sostegno all’imprenditorialità: Facilitare la creazione di nuove imprese con semplificazioni burocratiche e incentivi fiscali.

5. Cooperazione tra Stato e imprese

  • Accordi pubblico-privato: Creazione di sinergie tra settore pubblico e privato per investire in infrastrutture, ricerca e innovazione.
  • Incentivi alla delocalizzazione interna: Favorire la crescita di nuove industrie in aree colpite da deindustrializzazione.

Conclusione

L’apertura commerciale è vantaggiosa nel lungo periodo, ma deve essere accompagnata da politiche di transizione per mitigare gli effetti negativi sull’occupazione e sulle imprese locali. Un mix di formazione, sostegno economico e politiche industriali può facilitare l’adattamento e garantire che i benefici della globalizzazione siano distribuiti in modo equo.

Limiti alla riconversione dei settori produttivi

Non tutti i paesi sono in grado di sviluppare imprese innovative o ad alto valore aggiunto in quantità sufficiente a garantire crescita e benessere diffuso. Le ragioni possono essere molteplici e variano a seconda del contesto economico, politico, sociale e infrastrutturale di ciascun paese. Ecco alcuni dei principali fattori che limitano lo sviluppo di settori innovativi:

1. Carenze nel capitale umano e nell’istruzione

  • Bassa qualità dell’istruzione: Paesi con sistemi educativi deboli non formano una forza lavoro adeguata alle esigenze dell’innovazione e dell’alta tecnologia.
  • Scarsa formazione in discipline STEM (Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica): L’assenza di competenze tecniche avanzate limita la capacità di sviluppare nuove tecnologie.
  • Fuga di cervelli: I talenti migliori emigrano verso paesi più avanzati, riducendo il potenziale innovativo interno.

2. Carenze nelle infrastrutture

  • Mancanza di reti digitali avanzate: Senza accesso a Internet veloce e a tecnologie moderne, le imprese faticano a competere nell’economia digitale.
  • Problemi di trasporti e logistica: Se i collegamenti interni ed esterni sono inefficienti, le imprese trovano difficoltà a commerciare e collaborare con il resto del mondo.
  • Energia inaffidabile e costosa: Nei paesi con infrastrutture energetiche scarse, le industrie non possono operare in modo efficiente.

3. Accesso limitato ai finanziamenti

  • Mercati finanziari poco sviluppati: Senza investitori, venture capital e accesso al credito, le startup innovative faticano a nascere e crescere.
  • Alto costo del capitale: Tassi di interesse elevati e difficoltà di ottenere prestiti scoraggiano l’investimento in attività ad alto rischio e innovazione.
  • Limitata cultura dell’investimento: In alcuni paesi, il capitale tende a concentrarsi in settori tradizionali (es. edilizia, materie prime) piuttosto che in imprese tecnologiche.

4. Problemi normativi e burocratici

  • Regolamentazioni rigide e complesse: Un’eccessiva burocrazia frena la creazione e lo sviluppo di nuove imprese.
  • Protezione insufficiente della proprietà intellettuale: Senza brevetti e tutele adeguate, le imprese innovative hanno scarso incentivo a investire in ricerca e sviluppo.
  • Corruzione e instabilità politica: Governi instabili o corrotti scoraggiano gli investitori e rendono difficile la pianificazione economica a lungo termine.

5. Struttura economica poco diversificata

  • Dipendenza da settori tradizionali: Alcuni paesi basano la loro economia su materie prime (petrolio, gas, agricoltura) e non hanno sviluppato un ecosistema favorevole all’innovazione.
  • Poca concorrenza interna: Se un’economia è dominata da pochi grandi gruppi monopolistici, le startup e le piccole imprese faticano a emergere.
  • Mercato interno limitato: Nei paesi con una bassa capacità di spesa, le imprese innovative non trovano domanda sufficiente per i loro prodotti.

6. Cultura e mentalità imprenditoriale

  • Rischio d’impresa poco accettato: In alcune società, il fallimento imprenditoriale è visto negativamente, scoraggiando nuove iniziative.
  • Mancanza di ecosistemi di innovazione: In paesi dove non ci sono network di startup, incubatori e collaborazioni tra università e aziende, è più difficile far nascere imprese ad alto valore aggiunto.
  • Ruolo dominante del settore pubblico: Se il governo assorbe gran parte della forza lavoro qualificata, l’imprenditorialità privata ne risente.

Conclusione

Lo sviluppo di imprese innovative non dipende solo dalla volontà di farlo, ma da un insieme di fattori strutturali, economici e culturali. Alcuni paesi riescono a superare queste barriere attraverso investimenti mirati in istruzione, ricerca e sviluppo, riforme normative e incentivi per l’imprenditorialità. Tuttavia, per molti paesi rimane difficile costruire un ecosistema favorevole all’innovazione senza interventi strategici di lungo termine.

I vincitori della globalizzazione: Cina e India

possiamo dire che Cina e India hanno saputo sfruttare la globalizzazione per aumentare notevolmente il loro reddito pro capite, ma il loro sviluppo non è dovuto solo a questo fattore. Ecco un’analisi delle principali cause della loro crescita economica negli ultimi 30 anni:


1. Globalizzazione e integrazione nei mercati internazionali

  • Cina: Dopo le riforme economiche di Deng Xiaoping negli anni ’80, la Cina ha progressivamente aperto la sua economia agli investimenti esteri e al commercio internazionale. L’adesione all’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) nel 2001 ha accelerato il suo sviluppo industriale e manifatturiero, trasformandola nella “fabbrica del mondo”.
  • India: Nel 1991, l’India ha avviato un processo di liberalizzazione economica, riducendo dazi e restrizioni commerciali, attirando investimenti diretti esteri e sviluppando settori come l’outsourcing IT.

2. Politiche economiche interne e riforme

  • Cina ha implementato politiche di pianificazione economica statale, creando zone economiche speciali, investendo massicciamente nelle infrastrutture e nel settore manifatturiero, con un forte controllo governativo sullo sviluppo economico.
  • India, pur avendo un’economia più orientata al mercato rispetto alla Cina, ha seguito una strategia di liberalizzazione e privatizzazione in alcuni settori chiave, come telecomunicazioni e servizi IT.

3. Industrializzazione e investimenti in tecnologia

  • Cina ha puntato sull’industrializzazione su larga scala, con un forte supporto statale. Oggi domina settori avanzati come l’elettronica e l’intelligenza artificiale.
  • India si è specializzata nei servizi IT e nell’outsourcing, diventando leader mondiale in settori come lo sviluppo software, il customer service e i servizi finanziari.

4. Demografia e forza lavoro

  • Entrambi i paesi hanno beneficiato di una popolazione numerosa e giovane, con una grande disponibilità di lavoratori a basso costo.
  • Tuttavia, la Cina sta ora affrontando un calo della natalità e un invecchiamento della popolazione, mentre l’India mantiene ancora un vantaggio demografico.

5. Investimenti in istruzione e innovazione

  • La Cina ha investito fortemente in ricerca e sviluppo, specialmente negli ultimi 15 anni, e oggi compete con gli USA in tecnologie avanzate.
  • L’India ha formato milioni di ingegneri e programmatori, favorendo la crescita del settore tecnologico e dei servizi digitali.

Conclusione

La globalizzazione è stata sicuramente un fattore chiave nella crescita di Cina e India, permettendo loro di accedere ai mercati internazionali e attrarre investimenti esteri. Tuttavia, il loro sviluppo è stato anche il risultato di scelte strategiche interne, come le riforme economiche, gli investimenti in istruzione e tecnologia, e un’efficace industrializzazione.

Mentre la Cina ha seguito un modello di sviluppo più controllato dallo Stato con forti investimenti in infrastrutture e manifattura, l’India ha puntato più sulla liberalizzazione e sul settore dei servizi. Entrambe le strategie hanno portato a una drastica riduzione della povertà e a un aumento del reddito pro capite, dimostrando che la globalizzazione, se gestita con politiche adeguate, può essere un potente strumento di sviluppo.

Alcuni Paesi che non ce l’hanno fatta

ci sono diversi paesi in via di sviluppo che non hanno saputo approfittare dei vantaggi della globalizzazione e, in alcuni casi, sono rimasti bloccati in situazioni di stagnazione economica, povertà persistente o instabilità politica. Ecco alcuni esempi significativi e le cause principali del loro mancato sviluppo:


1. Venezuela – Declino economico dovuto alla dipendenza dal petrolio e cattiva gestione

  • Cosa è successo?

    • Negli anni 2000, il Venezuela ha beneficiato dell’aumento dei prezzi del petrolio, ma il governo ha nazionalizzato molte industrie e aumentato la spesa pubblica senza investire in settori diversificati.
    • Quando il prezzo del petrolio è crollato (dal 2014 in poi), l’economia è precipitata in una crisi devastante.
    • Invece di diversificare l’economia, il governo ha adottato misure protezionistiche e politiche economiche fallimentari (come la stampa incontrollata di denaro, che ha portato a iperinflazione).
  • Perché non ha sfruttato la globalizzazione?

    • Dipendenza eccessiva da una singola risorsa (petrolio) senza sviluppare altri settori.
    • Nazionalizzazioni e scarsa attrazione di investimenti stranieri.
    • Crollo delle istituzioni democratiche e isolamento politico.

2. Repubblica Democratica del Congo (RDC) – Ricchezze naturali sprecate a causa di instabilità e corruzione

  • Cosa è successo?

    • La RDC è uno dei paesi più ricchi al mondo in termini di risorse naturali (coltan, diamanti, oro, rame).
    • Tuttavia, guerre civili, corruzione e sfruttamento illegale delle risorse hanno impedito qualsiasi crescita economica sostenibile.
    • Le multinazionali straniere spesso operano in modo opaco, portando benefici minimi alla popolazione locale.
  • Perché non ha sfruttato la globalizzazione?

    • Guerre e instabilità politica cronica hanno scoraggiato gli investimenti e impedito lo sviluppo industriale.
    • Mancanza di infrastrutture e istruzione ha limitato la crescita del settore privato.
    • Corruzione diffusa e governi inefficienti hanno impedito riforme economiche serie.

3. Haiti – Povero sviluppo economico nonostante la vicinanza agli USA

  • Cosa è successo?

    • Haiti è il paese più povero dell’America Latina, nonostante sia vicino agli Stati Uniti e abbia accesso a mercati internazionali.
    • Ha subito una lunga storia di instabilità politica, terremoti devastanti (come quello del 2010) e corruzione cronica.
    • Le aziende straniere hanno investito poco perché non c’è sicurezza politica ed economica.
  • Perché non ha sfruttato la globalizzazione?

    • Debolezza istituzionale e corruzione: governo instabile e privo di capacità di attrarre investimenti.
    • Dipendenza dagli aiuti internazionali, invece di sviluppare un’economia autonoma.
    • Mancanza di infrastrutture e capitale umano: poche industrie e manodopera poco qualificata.

4. Nigeria – Mancata industrializzazione nonostante le risorse petrolifere

  • Cosa è successo?

    • La Nigeria è il più grande produttore di petrolio in Africa, ma la ricchezza non si è distribuita equamente.
    • La crescita è stata ostacolata da corruzione, scarsa diversificazione economica e terrorismo (come Boko Haram nel Nord del paese).
    • Ha avuto difficoltà a sviluppare un’industria manifatturiera e tecnologica competitiva.
  • Perché non ha sfruttato la globalizzazione?

    • Dipendenza eccessiva dal petrolio senza una strategia di diversificazione economica.
    • Corruzione endemica: gran parte delle entrate petrolifere è stata sottratta da élite politiche e non investita in sviluppo.
    • Infrastrutture carenti e instabilità: problemi cronici di elettricità, strade e sicurezza.

5. Argentina – Alternanza tra sviluppo e crisi economiche cicliche

  • Cosa è successo?

    • L’Argentina era tra i paesi più ricchi del mondo nei primi decenni del ‘900, ma ha avuto decenni di crisi economiche dovute a cattiva gestione macroeconomica.
    • Ha attraversato default del debito più volte, perdendo la fiducia degli investitori internazionali.
    • Ha oscillato tra politiche protezionistiche e aperture economiche, senza mai trovare stabilità.
  • Perché non ha sfruttato la globalizzazione?

    • Politiche economiche erratiche: ha alternato fasi di apertura ai mercati a fasi di chiusura protezionistica.
    • Inflazione altissima e crisi del debito, che hanno allontanato investimenti esteri.
    • Mancanza di continuità politica ed economica: governi populisti e misure economiche poco sostenibili.

Conclusione: Perché alcuni paesi non hanno sfruttato la globalizzazione?

Dai casi sopra, possiamo vedere che i paesi che non hanno beneficiato della globalizzazione tendono ad avere problemi ricorrenti come:

  • Instabilità politica e conflitti interni (es. Repubblica Democratica del Congo, Haiti, Venezuela).
  • Dipendenza da una sola risorsa naturale senza diversificazione (es. Venezuela, Nigeria).
  • Corruzione e debolezza delle istituzioni, che impediscono investimenti e sviluppo (es. Haiti, Nigeria, Argentina).
  • Mancanza di infrastrutture e capitale umano per attrarre investimenti (es. Haiti, Repubblica Democratica del Congo).

Al contrario, paesi come Cina e India hanno saputo adottare riforme economiche strategiche, migliorare l’istruzione e attrarre investimenti esteri, permettendo loro di integrare con successo la globalizzazione nei loro piani di sviluppo.

Articolo contenuto sul sito www.orientamento.it. Autore © Leonardo Evangelista. Vedi le indicazioni relative a Informativa Privacy, cookie policy e Copyright.