Trovare lavoro è come imparare una lingua (o andare in palestra)

Come migliorare le tue possibilità di trovare lavoro

Trovare lavoro è un obiettivo che accomuna moltissime persone in momenti diversi della vita. Ma da cosa dipende realmente la possibilità di riuscirci? Chi si è trovato, o si trova, nel bel mezzo di una ricerca di lavoro spesso si fa questa domanda. Alcuni rispondono con un’alzata di spalle: “Dipende dalla fortuna”, “Dipende dalle raccomandazioni”, “Dipende dal momento”. Sono risposte comprensibili, e in parte vere. Ma sono anche risposte che rischiano di paralizzarci, perché si riferiscono a fattori su cui non abbiamo alcun potere.

In realtà, la ricerca di lavoro è influenzata da una molteplicità di variabili, alcune fuori dal nostro controllo (come la congiuntura economica o il rapporto fra domanda e offerta in un certo settore), altre invece sulle quali possiamo agire concretamente. E sono proprio queste ultime quelle su cui vale la pena concentrarsi.

Le due leve fondamentali: competenze e contatti

Al di là della fortuna e del contesto generale del mercato del lavoro, ci sono due variabili su cui ciascuno può lavorare direttamente:

  1. Il livello delle proprie competenze

  2. Il numero di datori di lavoro contattati

Sono queste le due leve decisive. Più le tue competenze sono migliori rispetto alla maggioranza delle persone che cercano lo stesso lavoro che cerchi tu, più aumentano le possibilità di essere selezionato. E più alto è il numero di aziende o enti a cui ti proponi (in modo mirato e professionale), più aumentano le probabilità che qualcuno abbia bisogno proprio di te.

Spesso però queste due dimensioni vengono trascurate o gestite in modo disorganico. Ci si concentra sul rifare il curriculum o sul rispondere a qualche annuncio, ma senza costanza, senza un metodo. Ed è qui che entra in gioco il paragone che voglio proporre.

Imparare una lingua: il mio insuccesso con il tedesco

Prendiamo ad esempio l’apprendimento di una lingua straniera. È una cosa che può sembrare diversa dalla ricerca di lavoro, ma che in realtà funziona in modo molto simile. Ti racconto la mia esperienza.

Ho iniziato a studiare il tedesco diversi anni fa, all’università, per sostenere un esame. Poi ho smesso. Dopo un po’ ho ripreso, per tradurre articoli di una rivista. Poi l’ho lasciato di nuovo. Anni dopo sono andato in Germania per alcuni soggiorni brevi, sempre con l’idea di “dare una spinta” alla lingua. Poi ho seguito un corso a Berlino prima del Covid. Dopo il Covid ho studiato da solo con alcune app. Più recentemente ho fatto un altro corso a distanza. Il risultato? Non sono mai andato oltre il livello A2, un livello base, che permette solo una comunicazione molto semplice.

E perché non sono andato oltre? Non certo per mancanza di motivazione. Il problema è stato la discontinuità. Studiare una lingua “a intermittenza” non funziona. Se la studi per tre mesi e poi la abbandoni per un anno, quando la riprendi sei ripartito da capo. Il cervello dimentica. I muscoli del linguaggio si atrofizzano. E non c’è nessuna app, nessun corso, che possa compensare la mancanza di costanza.

Anche cercare lavoro richiede continuità

Ecco allora il punto centrale: cercare lavoro è come imparare una lingua.
Non puoi pensarla come un’attività da fare “ogni tanto”, quando hai tempo, quando ti ricordi, quando sei ispirato. Se vuoi davvero trovare un lavoro, soprattutto se non hai competenze fortemente richieste dal mercato, devi impegnarti ogni giorno, con costanza, proprio come se stessi studiando il tedesco.

Studiare Excel per una settimana e poi non aprirlo più per sei mesi non serve a niente. Allo stesso modo, inviare 4 o 5 candidature al mese è troppo poco per fare la differenza. Non basta “essere disponibili” o “avere buona volontà”. Serve una strategia e una pratica continua.

Il secondo paragone: la palestra

Lo stesso concetto vale se vogliamo usare un altro paragone: la palestra.
Se vuoi dimagrire, migliorare la tua forma fisica, o magari avere una pancia scolpita, non ti basta andarci una volta ogni tanto, oppure tutti i giorni per una sola settimana. Per vedere risultati reali, devi andarci regolarmente, con impegno e pazienza.

Certo, può essere noioso. Può non dare risultati subito. Ma funziona. Lo stesso vale per la ricerca di lavoro: non esistono scorciatoie miracolose. Esiste solo la disciplina di chi ogni giorno dedica un po’ di tempo a:

  • aggiornare le proprie competenze,
  • cercare aziende da contattare,
  • mandare candidature personalizzate,
  • riflettere su cosa migliorare.

Competenze medie e mercato competitivo

C’è poi un aspetto da sottolineare. Se sei un saldatore, un camionista, un operatore sanitario, un cameriere, in molti casi le tue competenze sono molto richieste. Non serve neanche cercare tanto, spesso sono i datori di lavoro a cercare te.

Ma se stai cercando un lavoro più generico, ad esempio come receptionist, addetto alle vendite, impiegato amministrativo senza competenze specifiche come la contabilità, allora ti trovi in un segmento molto affollato del mercato.

E lì la concorrenza è forte.

A parità di competenze, vince chi si propone di più, meglio, con più costanza.

La regola delle due C: Competenze e Contatti

Quindi possiamo sintetizzare il tutto in una formula semplice:

Trovare lavoro = Competenze x Contatti

  • Le competenze si allenano, si costruiscono nel tempo, con studio, pratica, esperienze anche piccole ma significative.

  • I contatti (cioè il numero di aziende a cui ti proponi) si costruiscono anche loro nel tempo, cercando opportunità, creando relazioni, mandando candidature anche spontanee, non solo rispondendo agli annunci.

E come con una lingua o con l’attività fisica, l’effetto accumulo conta tantissimo. Ogni giorno in cui studi o ti proponi, metti un mattone. E ogni giorno in cui non fai nulla, perdi pezzi di quello che avevi costruito.

Conclusione

Non puoi cambiare il mercato del lavoro, né il livello della concorrenza. Non puoi controllare la fortuna. Ma puoi prendere in mano le due leve principali che sono nelle tue mani: competenze e contatti. E puoi scegliere di agire non una tantum, ma ogni giorno, anche solo per mezz’ora. Con costanza.

Proprio come imparare una lingua. Proprio come allenarsi in palestra.

È così che puoi arrivare, prima o poi, a ottenere il lavoro che cerchi.

Articolo contenuto sul sito www.orientamento.it. Autore Leonardo Evangelista. Leonardo Evangelista si occupa di orientamento dal 1993 e di formazione dal 2004.  Vedi le indicazioni relative a Informativa Privacy, cookie policy e Copyright.

Un riassunto e un commento a Come i bambini. Immagina, crea, gioca e condividi, di M. Resnick

Il libro in sintesi

Il libro mostra come la tecnologia permetta ai bambini di esprimere la propria creatività: Resnick ha sviluppato

  • Scratch, un linguaggio semplificato di programmazione che permette di costruire brevi clips con cartoni animati, lo ha collocato su un sito online, e ha creato una comunità di migliaia di bambini che si esercitano nella programmazione realizzando immagini o animazioni di loro interesse e condividendole con gli altri. Al sito si sono affiancati anche centri fisici chiamati
  • Computer club House (al momento sono 160, soprattutto negli Stati Uniti) dove i bambini, sotto la guida di un educatore, utilizzano lo stesso programma oppure anche creano oggetti utilizzando una versione informatizzata dei Lego.

Il libro è soprattutto il racconto di queste esperienze più qualche teorizzazione sui principi che la guidano.

Un riassunto

Il riferimento teorico è al giardino dell’infanzia di Fröbel. L’idea di base è che i bambini nascono con immensi talenti naturali che poi purtroppo vengono obliterati dall’educazione formale 8 (i numeri si riferiscono alle pagine della versione italiana del libro) che non stimola a sufficienza la creatività e lo spirito di iniziativa dei partecipanti 12. Al contrario la nostra società è in continuo cambiamento 13 e abbiamo necessità di persone creative. Vedi il mio articolo Lo spontaneismo educativo in ambito pedagogico: visione, protagonisti, vantaggi e limiti

Il giardino d’infanzia è stato creato nel 1837 in Germania da Fröbel 16 Resnick propone giardino d’infanzia per tutta la vita Lifelong Learning Kindergarten 16 Prima le scuole adottavano un approccio trasmissivo all’istruzione, gli studenti stavano seduti scrivevano le informazioni che ricevevano dal docente e poi le ripetevano ad alta voce, in un ruolo sostanzialmente passivo. Secondo Fröbel i bambini piccoli imparano meglio interagendo col mondo che li circonda e perciò adottò un modello interattivo fornendo ai bambini opportunità di interagire con giocattoli, materiali e altri oggetti 17 fra cui alcuni creati appositamente chiamati doni, ad esempio, tessere geometriche opportunamente strutturate in maniera da facilitare il gioco e la creatività 17 L’approccio di Fröbel fu ripreso da Maria Montessori 18.

Ugualmente, in molte scuole attuali si dà più importanza a insegnare le prime basi dell’alfabetizzazione. Vale a dire assimilare informazioni e svolgere dei compiti predeterminati sotto controllo diretto e meno all’esplorazione libera e giocosa 19, e c’è una spinta a eliminare il gioco dalla scuola dell’infanzia, che sta diventando simile al resto della scuola 19. Secondo Resnick l’approccio giardino d’infanzia dovrebbe essere adottato anche nelle scuole di livello superiore. Vedi un esempio di scuola organizzata secondo questo modello. Nel sito internet di Resnick i bambini decidono liberamente quale tipo di progetto vogliono sviluppare, in genere si tratta di animazioni con personaggi fantastici quali mostri o dinosauri, I bambini, cioè, lavorano per progetti chiedendo anche, grazie a una strutturazione del sito come social media, consigli e integrazioni agli altri visitatori del sito. Secondo Resnick le caratteristiche notevoli sono 4: la prima è il fatto che i bambini lavorano per progetti, la seconda che i bambini fanno quello che gli interessa (passione), la terza è che i bambini interagiscono in questo processo coi pari, il quarto termine significativo è gioco che però va spiegato 26

Resnick individua un processo strutturato nei seguenti stadi:

  • 1 immaginare (cioè decidere cosa sviluppare)
  • 2-3 creare e giocare che significa sviluppare quello che hanno immaginato e giocarci
  • condividere che significa collaborare con altri bambini alla realizzazione di quello che hanno immaginato e poi
  • riflettere su quello che hanno fatto e come potremmo migliorarlo 80

È un processo a spirale 22, che in realtà descrive l’utilizzo del programma scratch. Il termine giocare non è adatto, giocare è il termine che descrive tutto il processo dall’inizio alla fine, andrebbe sostituito con sviluppare e in più nel gioco reale l’immaginazione avviene spesso nella fase di manipolazione vale a dire che i bambini prendono in mano i Lego e decidono cosa farne in quel momento o addirittura dopo durante la manipolazione, non prima. Il libro racconta una serie di storie di successo di bambini che hanno realizzato dei progetti notevoli sul sito di scratch 25

Resnick descrive il suo concetto di creatività che consiste semplicemente nel trovare soluzioni non standardizzate 28 perciò la creatività non si limita alle creazioni artistiche, è una prerogativa di tutta la popolazione e, secondo lui, non è un’illuminazione improvvisa. Spesso la creatività richiede del tempo: anche in questo caso si capisce un riferimento alla programmazione, dove il risultato finale è frutto di numerosi aggiustamenti 30. Un altro aspetto è che la creatività non si può insegnare, ma viene sviluppata lasciando semplicemente i bambini liberi di sperimentare 30, tuttavia la creatività va sostenuta immergendo i bambini in un ambiente strutturato in modo da promuovere la creatività, ad esempio le nuove tecnologie possono offrire queste opportunità di creatività.

Spesso le tecnologie vengono usati in modo tradizionale. Ad esempio, si possono far vedere immagini su pc per far memorizzare determinati concetti. Si usano, cioè, i computer e la tecnologia come una semplice sostituzione dell’insegnante invece che come un nuovo mezzo di espressione 46. Al contrario usare un programma come scratch promuove la creatività.

Lavorare per progetti. Resnick parla del movimento dei makers vale a dire di un movimento che produce la produzione di oggetti spesso tecnologici 42, ad esempio con l’uso di stampanti in 3D e macchine a taglio laser 42. Vedi la rivista Make. Tutte queste persone lavorano su progetti che permettono di acquisire nuove abilità. Si impara meglio quando si realizza qualcosa 45, riprendendo anche la teoria di Piaget la conoscenza si acquisisce attraverso l’interazione quotidiana con le persone e gli oggetti del mondo 45 e non perché qualcuno più grande ti riversa la conoscenza come in un vaso 46 I bambini sono costruttori attivi , non ricettori passivi di conoscenza, i bambini non comprendono le idee, le creano 46 Questo approccio si chiama costruzionismo mentre i bambini costruiscono cose nuove nel mondo si costruiscono nuove idee nella mente e questo li motiva a costruire nuove cose e così via 47 Resnick cita Seymour Papert, un collaboratore di Piaget 45. Papert inventò anche un linguaggio di programmazione chiamato Logo e descrisse le sue idee in un libro chiamato Mindstorms pubblicato nel 1980.

I giocattoli elettronici promuovono la creatività solo se il bambino possono usarlo per ideare creare i loro progetti, devono essere cioè dei giocattoli che fanno pensare come ad esempio i mattoncini Lego 50 È necessario distinguere fra interagire con le tecnologie cosa che può essere molto passiva e creare con le tecnologie 53 Resnick ed altri hanno collaborato con la Lego per produrre dei mattoncini dotati di sensori dei piccoli motorini 51 creando un prodotto chiamato Lego logo nel 1988 51 dotato cioè di mattoncini programmabili questi mattoncini sono venduti in kit chiamati Mindstorms 52.

Ci sono molte attività introduttive alla programmazione che si basano sui rompicapi, ad esempio i bambini devono creare un programma che risolve una fase del gioco, ad esempio, creare uno schermo in una battaglia fra astronavi spaziali 56 Resnick ritiene invece che lavorare su progetti scelti direttamente dai bambini promuova ulteriormente meglio la creatività 57 Resnick segnala come realizzare progetti migliora l’immagine di sé 60.

La proposta di Resnick sembra molto valida per imparare la programmazione, ma se tutta la scuola funzionasse per progetti scelti liberamente non si sa in anticipo che cosa impareranno 62. Forse sarebbe meglio fare prima un elenco dei concetti che devono imparare e poi insegnare loro dei problemi che gli permettono di impararli. Secondo Resnick è meglio lavorare per progetti liberi perché questo sviluppa il pensiero creativo 63, ma questo non risolve questo limite.

Resnick spiega poi come ha creato a partire dal 1993 le computer club House 71. Se vogliamo insegnare la tecnologia è utile inventarsi dei modi inizialmente semplici per farla utilizzare e poi dare la possibilità di lavorare a progetti sempre più sofisticati questo concetto è spiegato con la metafora pavimenti bassi e soffitti alti 73 a questo concetto va aggiunto anche quello delle pareti ampie vale a dire offrire ai bambini la possibilità di lavorare sui progetti più diversi, in maniera che possano seguire le proprie passioni ad esempio il programma scratch permetti realizzare storie interattive, video artistici, video musicali, animazioni, simulazioni 74 77

Alcuni applicano all’educazione la gamification, vale a dire assegnano dei punteggi al raggiungimento di determinati risultati 81 questo approccio si rifà al comportamentismo 82 tuttavia questo approccio motiva le persone solo nel breve periodo perché si tratta di una motivazione esterna. Le persone mantengono un determinato comportamento quando questo risponde a una motivazione intrinseca 82. Perciò le esperienze educative devono assicurare soddisfazione in quanto tale e non perché assicurano premi e ricompense 84 per questo motivo Resnick nel sito di scratch cerca di scoraggiare la competizione fra i partecipanti, ad esempio fra chi ha creato più progetti 85

Resnick critica l’approccio all’insegnamento basato sulla personalizzazione, che consiste grazie ai computer, nel proporre contenuti educativi diversi al ragazzi diversi sulla base dei risultati di prove di valutazione dell’apprendimento 87. Secondo Resnick la personalizzazione ottimale quando invece il discente può scegliere liberamente cosa fare 88. In più Resnick dà una grande importanza alla possibilità di mettere se stessi nel progetto attraverso videocamera e microfono in maniera da far sentire maggiormente propri i progetti realizzati 88.

Resnick critica approcci all’educazione totalmente non strutturati 89 nelle Computer club House ci sono una serie di attività che vengono proposte ai presenti, è necessario trovare un giusto equilibrio fra libertà e strutturazione 90. I laboratori non sono obbligatori ma i ragazzi possono sceglierli. i problemi nascono quando la strutturazione è troppa, ma anche quando è troppo poca. Se è troppa i ragazzi non possono lavorare su quello che vogliono ma se è troppo poca alcuni ragazzi non sanno cosa fare 91 Non tutti i bambini sono totalmente creativi 91 per questo motivo nel sito scratch sono stati creati dei micromondi su temi diversi che permettono di usare un repertorio limitato di blocchi di programmazione in maniera da rendere più facile l’interazione ad esempio micromondi per realizzare giochi di calcio interattivi 91.

Nelle Computer club House si dà grande rilievo alla collaborazione fra i partecipanti spingendoli a lavorare assieme 102.

Le nuove tecnologie hanno trasformato radicalmente le possibilità di collaborazione permettendo di creare delle comunità di apprendimento fra bambini di paesi diversi 103 per questo il sito di scratch è stato strutturato come una sorta di social media, tutti i progetti sono prodotti in libero utilizzo con una licenza Creative Commons che possono essere modificati da altri utilizzatori anche se ad alcuni bambini questo non fa piacere. Di ogni progetto viene tenuto un albero delle modifiche evidenziando tutti i contributi dei diversi partecipanti 111 è possibile semplicemente premendo un tasto vedere i blocchi di programmazione utilizzati per realizzare ogni progetto 111 Un altro aspetto della comunità e che i moderatori intervengono attivamente per evitare commenti rozzi volgari o rispettosi 115 per questo motivo sono stati anche create delle linee guida 116 e in più si fanno laboratori che insegnano a dare dei feedback costruttivi 117 lo stesso approccio è stato utilizzato nel computer Lab House 119.

Il tutoring È una componente fondamentale dell’approccio. Il comportamento del tutor è molto diverso da quello tradizionale dell’insegnante che trasmette istruzioni e informazioni. Tuttavia, è ugualmente negativo lasciare i bambini totalmente da soli. Il tutor ha vari ruoli: catalizzatore, cioè, accelerare il processo di apprendimento stimolando la riflessione. Consulente tecnico creativo oppure anche fornire supporto emotivo. Poi connettore che aiuta i ragazzi a lavorare a creare gruppi a lavorare in gruppo. infine collaboratore: deve sviluppare progetti propri e coinvolgere i ragazzi 123

Resnick ha anche elaborato junior summit vale a dire delle conferenze collaborative con ragazzi di tutto il mondo online e di questi 100 vanno negli Stati Uniti per una settimana di collaborazione faccia a faccia 125

Il libro parla dell’esperimento del buco nel muro in cui con un fisico indiano nel 1999 installa un chiosco con un computer connesso a Internet in un quartiere povero di Dehli 126. Il chiosco non prevedeva nessun tipo di assistenza, il risultato fu che i bambini avevano imparato a navigare in Internet a usare vari programmi a trovare giochi online e a giocarci ma non avevano creato né giochi né siti questo ci fa capire secondo l’autore che per alcuni tipi di esperienze di apprendimento è necessario il supporto di persone diverse dai pari 128 i pari sono molto importanti ma non sono sufficienti 128.

Giocare vuol dire non solo interagire con cose che utilizzano la tecnologia come, ad esempio, i videogiochi ma anche progettare e creare usando la tecnologia 134 Il pedagogista John Dewey sposto l’attenzione dal gioco, cioè l’attività alla giocosità, cioè l’atteggiamento 137 Non tutti i giochi sviluppano il pensiero creativo. L’autore distingue fra box e parchi giochi. Nei box c’è poco spazio i bambini hanno poche opportunità di esplorare mentre invece nei parchi giochi queste opportunità sono estremamente ampie 138. Nei videogiochi i bambini imparano a muoversi all’interno di mondi virtuali per fare punti e salire di livello ma questi giochi offrono poche opportunità di inventare attività, assomigliano più a un box che a un parco giochi 141. Minecraft e scratch invece hanno un approccio da parco giochi 141. Per sviluppare la creatività è molto importante sperimentare 146 È molto importante avere pareti ampie vale a dire che la tecnologia utilizzata permetta di fare tante molte cose diverse 148. I bambini possono interagire coi giocattoli in due modi da una parte abbiamo i macchinisti che sono affascinati dalle strutture e dai modelli ed amano giocare con mattoncini e puzzle gli sceneggiatori invece sono più interessanti i racconti all’interazione sociali giocano con bambole e pupazzi 149

Resnick affronta poi il problema della valutazione. Il curriculum normale prevede l’insegnamento di determinate competenze e informazioni e la verifica attraverso prove standardizzate 159 questo rende difficile valutare modalità didattiche dove sono i bambini a scegliere quello che vogliono imparare perché queste attività sono esterne al curriculum o portano ad abbandonare o ridurre il tempo dedicato al curriculo 160 L’approccio basato sulle prove standardizzate mortifica lo sviluppo della creatività l’autore sostiene che misurare non è importante è che quando c’è la creatività di mezzo possiamo accontentarci di documentare quello che i bambini apprendono 161 ad esempio facendo loro realizzare dei portfolio che sono una forma non quantitativa di evidenza 161

Suggerimenti per un apprendimento creativo 1 partire da cose semplici 2 lavorare su cose che mi piacciono 3 anche se non sai cosa fare inizia a fare qualcosa 172 4 non aver paura di sperimentare 5 trovo un amico con cui lavorare e scambiare idee 6 va bene copiare dagli altri 7 scrivere proprie idee in un taccuino per documentare i propri progetti in modo da favorire la valutazione 8 l’errore fa parte del processo 9 è importante andare avanti

Suggerimenti per genitori e insegnanti: non insegnare la creatività, ma creare un ambiente nel quale la loro creatività possa esprimersi 177 suggerimenti 1 mostrare esempi per stimolare idee 2 incoraggiare i bambini a giocherellare con i materiali 3 fornire una varietà di materiali 4 accogliere tutti i tipi di attività 5 dare importanza al processo non al prodotto 6 dare tempo per lavorare ai progetti 7 aiutare i bambini a trovare dei compagni 8 collaborate voi stessi 9 fate domande per aiutare i bambini a riflettere 10 condividete le vostre riflessioni con i bambini 181

Suggerimenti per progettisti e sviluppatori 182 1 progettate cose che permettono ai bambini di progettare 2 dare pavimenti bassi e soffitti alti cioè proponete attività elementari che possono poi diventare sofisticate 184 3 dare pareti ampie vale a dire costruire ambienti di apprendimento dove i bambini possono fare molte cose diverse 4 progettare tecnologie che aggancino gli interessi dei bambini ma saranno utili nella loro vita 5 Creare strumenti tecnologici non complessi 6 conoscere bene i destinatari delle tecnologie 7 inventate cose che voi stessi cioè i progettisti vorreste usare 186 8 progettate attraverso team interdisciplinari che mettono insieme competenze di natura diversa 9 raccogliete feedback su quello che state sviluppando da una comunità ampia di persone 10 rivedete le cose fatte

Per rispondere alle esigenze di una società creativa sarebbe necessario abbattere le barriere fra le discipline, fra le fasce d’età, fra le scuole e le famiglie ambienti esterni, non contingentare i tempi 189 si tratta di un progetto molto difficile pressoché irrealizzabile 190 tuttavia l’autore è ottimista 190.

Sintesi degli aspetti salienti

Il libro racconta le esperienze pedagogiche di Resnick che hanno consistito in:

  1. creare un linguaggio semplificato di programmazione che permette di sviluppare immagini e video
  2. metterlo su un sito web in modo che tutti possano usarlo
  3. strutturare il sito web come un social media in modo da favorire l’interazione fra tutti gli utilizzatori (altri accorgimenti in questa direzione sono l’albero delle modifiche, l’adozione di licenze Creative Commons)
  4. il progetto ha inoltre sviluppato le computer club houses vale a dire sportelli fisici collocati in genere in quartieri degradati degli Stati Uniti dove personale appositamente formato aiuta i giovani a utilizzare scratch. Il progetto inoltre realizza incontri internazionali in presenza fra i bambini che utilizzano scratch

la metodologia educativa adottata dal Resnick consiste nel mettere i bambini in condizione di creare con la tecnologia in progetti liberamente scelti e di condividere con i pari questi progetti. Questo approccio, Che si rifà allo spontaneismo educativo promosso fra gli altri da Fröbel e Montessori è diverso da:

  1. usare semplicemente la tecnologia come nei videogiochi
  2. applicare la gamification per dare una motivazione estrinseca allo svolgimento di determinati compiti
  3. usare l’informatica per personalizzare la didattica

Alcune critiche:

  1. nello schema spirale costituito da immaginare, creare, giocare, condividere e riflettere il momento del gioco è estremamente limitato, il gioco consiste nell’immaginazione nella creazione di immagini e video. Inoltre, nella realtà, mettendo da parte la programmazione informatica, l’immaginazione, cioè la progettazione, non è un momento precedente ma avviene spesso nella fase di manipolazione dei materiali
  2. Una critica più sostanziale e che i bambini che lavorano su progetti liberamente scelti rischiano di non sviluppare quelle competenze quali ad esempio leggere e scrivere e calcolare che tutti devono avere. Da questo punto di vista il programma didattico di Resnick sembra solo un’aggiunta alla ordinaria attività scolastica e non un’alternativa.

Altre critiche raccolte con Perplexity

Eccessiva centralità di Scratch

Una delle critiche più frequenti riguarda il fatto che gran parte del libro ruota intorno a Scratch, il linguaggio di programmazione e la comunità online sviluppati dallo stesso Resnick e dal suo team al MIT Media Lab. Molti lettori hanno notato che il testo, pur partendo da una riflessione generale sulla creatività e sull’apprendimento, finisce per presentare quasi esclusivamente esempi e casi di studio legati a Scratch. Questo approccio è stato percepito da alcuni come una sorta di “autopromozione” o “accademico narcisismo”, e ha dato l’impressione che il libro fosse più un’estensione del progetto Scratch che una trattazione ampia e articolata sui principi del lifelong kindergarten4.

“Il libro non esplora davvero i principi dell’asilo applicati all’apprendimento permanente, ma piuttosto riassume l’asilo come creativo e basato sul gioco, per poi esplorare la creatività solo attraverso la lente di Scratch. […] Sembrava più una promozione del software che un libro sui metodi di apprendimento creativo.”4

Mancanza di dati empirici e rigore scientifico

Un altro punto critico riguarda l’assenza di dati empirici a sostegno delle tesi di Resnick. Il libro si basa principalmente su esempi aneddotici, storie di successo e testimonianze raccolte nell’ambito dei progetti del MIT, senza però offrire una valutazione sistematica o dati quantitativi che dimostrino l’efficacia del modello proposto. Questo limite viene evidenziato soprattutto da chi cerca nel testo un supporto più solido e verificabile alle strategie educative suggerite4.

“Non aspettatevi di trovare dati a supporto della sua tesi, perché ‘piuttosto che cercare di misurare ciò che i bambini imparano (attraverso i numeri), dobbiamo anche documentare ciò che imparano (attraverso esempi convincenti)’. Gli esempi forniti sono legati ai suoi progetti con LEGO e Scratch, ma manca un’analisi più ampia o imparziale.”4

Applicabilità e generalizzazione del modello

Alcuni lettori hanno sottolineato che il modello delle “4P” (Projects, Passion, Peers, Play) e la spirale dell’apprendimento creativo sono proposte stimolanti, ma il libro non approfondisce abbastanza come queste idee possano essere realmente applicate in contesti educativi diversi da quelli privilegiati dal MIT o da scuole con risorse particolari. Manca, secondo queste critiche, una riflessione sulle sfide concrete dell’implementazione su larga scala, soprattutto in sistemi scolastici tradizionali o in contesti meno favorevoli4.

Aspetti economici e competenze trasversali

Un’altra osservazione riguarda l’assenza di una discussione su come la creatività coltivata attraverso il lifelong kindergarten possa tradursi in competenze utili anche dal punto di vista economico e professionale. Il libro si concentra molto sulla gioia della creazione e sull’importanza della collaborazione, ma non affronta in modo approfondito il tema di come i giovani possano trasformare la loro creatività in opportunità lavorative, sviluppando anche competenze come il marketing, la gestione di progetti o la sostenibilità economica delle proprie iniziative4.

“L’unica vera cosa che manca al libro è una discussione sull’economia e il marketing. […] Troppo spesso, i successi vengono misurati dal fatto che un bambino entri in una grande azienda o in una buona università, ma non si parla di come possa vivere della propria creatività.”4

Stile di scrittura e ripetitività

Alcuni lettori hanno trovato lo stile di scrittura poco coinvolgente o eccessivamente ripetitivo, soprattutto nella seconda parte del libro, dove vengono riportate molte interviste e storie di utenti di Scratch. Questo aspetto ha reso la lettura meno scorrevole e, secondo alcuni, ha ridotto l’impatto delle argomentazioni dell’autore4.

Citations:

  1. https://opentalk.iit.it/book-review-come-i-bambini/
  2. https://www.non-compiti.it/come-i-bambini-mitchel-resnick/
  3. https://www.coderdojocomo.it/risorse/consigli-per-gli-acquisti/2018/10/lifelong-kindergarten-cultivating-creativity/
  4. https://www.goodreads.com/book/show/34889378-lifelong-kindergarten
  5. https://www.lafeltrinelli.it/come-bambini-immagina-crea-gioca-libro-mitchel-resnick/e/9788859016359
  6. https://www.stateofmind.it/2018/12/come-i-bambini-creativita-recensione/
  7. https://www.erickson.it/it/come-i-bambini
  8. https://www.scuoladirobotica.it/il-pensiero-creativo-e-il-lavoro-di-progetto/
  9. https://www.linkedin.com/pulse/book-review-lifelong-kindergarten-cultivating-creativity-pk-shiu
  10. https://www.aam-us.org/wp-content/uploads/2024/03/19_Exhibition_FA20_BookReview_LifelongKindergarten_ca2cfb.pdf
  11. https://journals.sagepub.com/pb-assets/cmscontent/TCZ/Book%20Reviews/2018%20Book%20Reviews/January%202018/Lifelong%20Kindergarten-%20Cultivating%20Creativity%20through%20Projects,%20Passion,%20Peers,%20and%20Play%20-1662585235.pdf
  12. https://zebuk.it/2019/02/come-i-bambini-mitchel-resnick/
  13. https://swallwin.wordpress.com/2018/02/04/a-review-lifelong-kindergarten-cultivating-creativity-through-projects-passion-peers-and-play/
  14. https://mitpress.mit.edu/9780262536134/lifelong-kindergarten/
  15. https://www.ibs.it/lifelong-kindergarten-cultivating-creativity-through-libro-inglese-mitchel-resnick/e/9780262536134
  16. https://app.thestorygraph.com/book_reviews/7bd8f961-5c91-408d-9635-1af49c6cb432
  17. https://www.museumofplay.org/app/uploads/2022/01/11-3-Book-Review2-lifelong-kindergarten.pdf
  18. https://www.bookdealer.it/libro/9788859016359/come-i-bambini-immagina-crea-gioca-e-condividi-coltivare-la-creativit%C3%A0-con-il-lifelong-kindergarten-del-mit
  19. https://www.abebooks.it/9788859016359/bambini-Immagina-crea-gioca-condividi-8859016355/plp
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Articolo contenuto sul sito www.orientamento.it. Autore Leonardo Evangelista. Leonardo Evangelista si occupa di orientamento dal 1993 e di formazione dal 2004.  Vedi le indicazioni relative a Informativa Privacy, cookie policy e Copyright.

Vita da formatore: tre modalità di analisi del bisogno formativo

L’analisi del fabbisogno formativo

Nel mondo della formazione professionale, la qualità dell’intervento dipende in gran parte dalla qualità dell’analisi del bisogno formativo. Nella pratica quotidiana dei formatori, questa fase cruciale è spesso trascurata, improvvisata o delegata. In questo articolo analizzeremo le tre principali modalità con cui viene affrontata – o evitata – l’analisi del bisogno formativo, evidenziandone vantaggi, limiti e implicazioni operative.

L’analisi “nella mente del formatore”

La prima modalità, la più istintiva e diffusa, è quella dell’analisi implicita, o “nella mente del formatore”. In questo caso, è il formatore stesso a dedurre quali siano i bisogni del gruppo di destinatari, sulla base della sua esperienza, delle sue conoscenze pregresse e, spesso, dell’intuito.

Pregi

Questa modalità è rapida, non richiede tempo o strumenti dedicati. È molto usata, ad esempio, da chi tiene corsi ricorrenti sullo stesso tema a target simili (come addetti alla vendita, operatori sociali, docenti, ecc.).

Limiti

Un possibile limite di questo approccio è che alcuni gruppi possono avere necessità specifiche, che emergono durante lo svolgimento dell’attività formativa. In questo caso il formatore deve essere in grado di modificare il suo programma in itinere e di farsi bastare il tempo predeterminato a disposizione.

L’analisi del bisogno fatta dal committente

Una seconda modalità molto diffusa è quella in cui il committente del corso –un’azienda, un ente pubblico o un’agenzia formativa – si fa carico di definire i bisogni formativi. Il formatore, in questo caso, riceve un brief, una richiesta, o più raramente una scheda progettuale già impostata.

Pregi

Il committente conosce i processi interni, gli obiettivi aziendali, le problematiche di produttività, clima o turn over, e può indirizzare la formazione verso aree ad alta priorità.

Limiti

Il problema nasce quando il committente non ha gli strumenti o il tempo per svolgere una vera analisi dei bisogni. A volte, ciò che viene richiesto è la risposta a un sintomo (“il personale non comunica”, “i capi non motivano”) senza aver diagnosticato la causa. Il rischio è che la formazione venga usata in modo simbolico – come gesto riparatorio – o che diventi un contenitore generico in cui riversare aspettative vaghe.

Inoltre, il committente può avere una visione parziale o distorta del reale bisogno formativo, basata sulle percezioni di chi è in posizione di potere, ma non necessariamente a contatto con i destinatari finali della formazione.

L’analisi del bisogno sul campo

La terza modalità, quella più rara ma più efficace, è l’analisi del bisogno sul campo. In questo caso, il formatore (o un progettista della formazione) svolge interviste, focus group, osservazioni dirette o questionari rivolti sia al committente che ai potenziali corsisti, con l’obiettivo di raccogliere dati significativi, ad esempio su:

  • competenze già possedute
  • difficoltà percepite
  • aspettative
  • desideri di cambiamento
  • vincoli organizzativi
  • clima relazionale
  • fattori motivazionali

Pregi

Questa modalità che consente di progettare una formazione su misura, fondata su un ascolto autentico delle persone. A volte il formatore può cogliere anche i non detti, le resistenze latenti, le motivazioni reali. Può adattare i contenuti, le metodologie e perfino lo stile comunicativo all’identità del gruppo.

Una analisi dei bisogni svolta in modo partecipato aumenta l’efficacia e il coinvolgimento durante il percorso formativo, perché i corsisti riconoscono nel corso una risposta concreta alle loro esigenze.

Limiti

Il limite è uno solo, ma decisivo: costa tempo e denaro. Richiede ore di lavoro dedicate alla raccolta e analisi dei dati, spesso non considerate dal committente, che tende a pagare solo le ore di docenza.

In molti contesti, specialmente nel settore pubblico o in progetti di piccole dimensioni, non c’è spazio per questa attività preliminare, anche se sarebbe fondamentale. La contraddizione è evidente: si chiede formazione “efficace e innovativa”, ma non si investe nella fase che più incide sulla sua efficacia.

Una variante minimalista: l’analisi iniziale delle aspettative

Una variante semplificata dell’analisi sul campo consiste nel chiedere ai partecipanti, nella prima ora del corso, di esprimere le loro aspettative. Si raccolgono in plenaria, su post-it, tramite un brainstorming o una attività in piccolo gruppo

Pregi

Questo approccio ha il pregio di favorire un primo ascolto, creare un clima di partecipazione, permettere qualche aggiustamento in corsa. È anche un gesto simbolico importante: mostra che il formatore non arriva con un “pacchetto chiuso”, ma è disposto ad accogliere le esigenze del gruppo.

Limiti

Ovviamente, è una soluzione parziale e non sostituisce un’analisi strutturata.

Conclusioni: tra pragmatismo e qualità

Il formatore non è un semplice esecutore di contenuti, ma un progettista dell’esperienza di apprendimento. E ogni buon progetto inizia da una domanda fondamentale: di che cosa hanno davvero bisogno le persone che sto per incontrare?

Tuttavia, ogni formatore, nel corso della sua attività, si trova a operare entro vincoli di budget, tempo e commesse. E’ compito suo trovare ogni volta il miglior compromesso fra vincoli e efficacia.

 

Articolo contenuto sul sito www.orientamento.it. Autore Leonardo Evangelista. Leonardo Evangelista si occupa di orientamento dal 1993 e di formazione dal 2004.  Vedi le indicazioni relative a Informativa Privacy, cookie policy e Copyright.

Dall’autobiografia come cura di sé all’autobiografia come ponte verso l’altro

Raccontarsi per illuminare e mettere ordine

Raccontarsi, sentirsi ascoltati, sono bisogni primari come mangiare e bere. Per chi non si conosce, per chi non si è mai raccontato o non è mai stato ascoltato davvero, l’approccio autobiografico è un momento di svolta. Scrivere, parlare, ricordare diventano occasioni profonde di presa di coscienza. Il racconto di sé è uno strumento potente di cambiamento. Raccontare la propria storia significa riconoscerla, ordinarla, a volte perfino perdonarla. Significa anche, molto spesso, scoprire cose in precedenza ignorate e nascoste di sé.

Tante persone non hanno mai avuto uno spazio in cui potersi raccontare. Non hanno mai sentito l’autorizzazione a farlo. E quando finalmente iniziano, quel gesto ha qualcosa di liberatorio, quasi euforico. “Adesso parlo io”.

In questa prima fase, l’autobiografia ha una funzione terapeutica evidente. Permette di mettere distanza tra sé e il proprio passato, di cogliere fili conduttori, di dare nomi alle emozioni. In alcuni casi, diventa persino un gesto politico: prendere parola contro le narrazioni dominanti, affermare la propria voce, dire la verità del proprio vissuto.

Ma poi?

La narrazione autoreferenziale

Dopo una prima fase generativa, il rischio è che l’autobiografia si trasformi in un atto sterile. In una ripetizione infinita degli stessi episodi, degli stessi dolori, delle stesse interpretazioni. Una sorta di “masturbazione intellettuale”: un atto solitario, autoreferenziale, chiuso su sé stesso.

Continuare a raccontare le stesse cose, a ripescare nello stesso passato può diventare un momento di stallo, di chiusura, un avvitamento su se stessi.

Due direzioni possibili per andare oltre

Per evitare questa deriva, è necessario proseguire la propria crescita personale in due direzioni:

1.Rendere coerente la propria vita con la propria natura
Se l’autobiografia ha portato a una maggiore consapevolezza di sé, questa consapevolezza deve trasformare il nostro quotidiano. Non basta aver individuato i propri valori: bisogna iniziare a vivere in coerenza con essi. Cambiare abitudini, prendere decisioni, uscire da relazioni che non rispondono ai nostri bisogni, fare scelte professionali più aderenti alla propria natura.

In questa prospettiva, la narrazione di sé non deve più limitarsi a uno strumento di introspezione, ma diventare una leva per la trasformazione del quotidiano. Le pratiche narrative devono perciò indirizzarsi, da un certo punto in poi, verso la progettazione e la messa in atto di cambiamenti di vita.

2.Ricerca dell’altro: costruire legami a partire da una capacità di introspezione condivisa
La seconda direzione è quella relazionale. Una volta che abbiamo imparato a dare voce alla nostra parte più profonda, possiamo condividere questa nostra abilità e le cose che abbiamo imparato di noi con altre persone, che hanno seguito un percorso simile al nostro e hanno acquisito la stessa capacità e conoscenza di se stesse. La pratica narrativa deve in questo caso essere indirizzata a migliorare la nostra capacità di connessione con le altre persone e la condivisione dei nostri vissuti. Si tratta, in sintesi, di passare dalla cura di sé all’incontro con l’altro, e, in prospettiva, alla creazione di un rete di persone simili a noi.

Tre diversi tipi di tecniche autobiografiche

In sintesi, le tecniche autobiografiche devono essere in grado di facilitare tre compiti diversi:

  1. La scoperta e la cura di sé: la parola che illumina e mette ordine
  2. La progettazione del cambiamento: l’agire intenzionale per far corrispondere la nostra vita quotidiana alla nostra natura
  3. La condivisione: la costruzione di relazioni, alleanze, senso condiviso.

 

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Le ragioni dietro la stretta di Trump sulle università americane: una sintesi

Il contesto

Negli ultimi anni, le politiche dell’ex presidente Donald Trump nei confronti degli studenti internazionali nelle università statunitensi hanno suscitato polemiche e preoccupazioni. Tuttavia, anche se la gestione di queste misure è stata spesso giudicata brutale e impopolare, esistono argomentazioni articolate che vanno al di là della semplice retorica populista. Ecco un riassunto delle principali motivazioni a sostegno di una maggiore regolazione del flusso di studenti stranieri, come emerso da analisi critiche pubblicate anche su testate autorevoli come il New York Times.

Elitismo e accessibilità per gli americani

Una delle critiche più forti riguarda l’aumento dell’élitismo all’interno delle università americane. L’accoglienza di grandi numeri di studenti stranieri, spesso provenienti da famiglie molto abbienti, ha reso l’accesso alle migliori università ancora più difficile per gli studenti americani, in particolare per quelli di origine meno privilegiata. Le rette pagate dagli studenti internazionali sono molto alte e rappresentano una fonte di entrate fondamentale per le università, ma ciò rischia di trasformare le istituzioni accademiche in “macchine da soldi” al servizio di una élite globale, a scapito della mobilità sociale interna.

Secondo Federico Rampini:

Il sistema accademico Usa, attirato dal ricchissimo mercato che sono i ricchi stranieri, è diventato una macchina da soldi al servizio di una élite globale. Naturalmente si salva la coscienza elargendo un po’ di borse di studio ai poveri, ma i grandi numeri descrivono una realtà ben diversa dal mito meritocratico ed egualitario. La figlia di Xi Jinping non è stata ammessa a Harvard grazie ai suoi voti e al suo talento.

Di conseguenza, in un paese dove oltre il 60% della popolazione non ha la laurea, Trump ancora una volta dimostra la sua diabolica capacità di gridare “il re è nudo”. Poi per riparare a un’ingiustizia ne commette altre, com’è tipico suo. Ma guardare la realtà in faccia è importante. Le grandi università di élite negli Stati Uniti sono a maggioranza private, e col passare degli anni la loro vocazione a formare una classe dirigente globale si è trasformata in un fantastico business. A vantaggio di chi? Dell’egemonia culturale Usa nel mondo? È tutto da dimostrare. L’antiamericanismo era insegnato molto bene nelle facoltà dell’Ivy League. Non risulta che i figli degli oligarchi russi e dei leader comunisti cinesi abbiano riportato in patria una visione liberaldemocratica o filoamericana; lo stesso vale per i figli di tanti leader corrotti dell’Africa e Sudamerica.

Mobilità sociale e coesione nazionale

Le università americane, soprattutto quelle più prestigiose, non hanno aumentato in modo significativo il numero totale di posti disponibili negli ultimi decenni, nonostante la popolazione statunitense sia cresciuta del 50%. Questo rende l’accesso estremamente competitivo. L’assegnazione di più posti a studenti stranieri, spesso più ricchi e meglio preparati grazie a scuole d’élite internazionali, riduce ulteriormente le possibilità degli studenti americani di accedere a una formazione di alto livello. La conseguenza è una crescente distanza tra le università e la realtà della maggior parte della popolazione americana, alimentando risentimenti e tensioni sociali.

Effetti sulla formazione e sul mercato del lavoro

Un altro punto critico riguarda la specializzazione delle università nell’attrarre talenti internazionali per ruoli apicali e superqualificati, a discapito della formazione tecnico-professionale rivolta agli americani. Questo ha creato squilibri nel mercato del lavoro, come la carenza di ingegneri industriali capaci di far funzionare fabbriche avanzate, mentre si continua a formare giovani stranieri per posizioni di vertice. La priorità data all’internazionalizzazione ha quindi ridotto l’attenzione verso l’istruzione tecnica e professionale, fondamentale per la crescita industriale del paese.

Diversità reale o apparente?

Sebbene l’arrivo di studenti stranieri porti una certa diversità culturale, questa non sempre coincide con una reale diversità sociale. Gli studenti internazionali spesso provengono da background simili tra loro e con quelli delle élite americane, mentre gli studenti americani di classi meno abbienti restano esclusi. Questo fenomeno può trasformare i dipartimenti universitari in “mini-Davos”, dove si rafforzano visioni del mondo omogenee e distanti dalle esigenze della maggioranza della popolazione.

Rischio di contro-esodo dei talenti

Infine, non tutti i talenti stranieri formati negli Stati Uniti rimangono nel paese. Alcuni, come nel caso della Cina, rientrano in patria portando con sé competenze e conoscenze che rafforzano la concorrenza tecnologica ed economica con gli Stati Uniti. Questo riduce i benefici attesi dall’accoglienza di studenti internazionali e pone interrogativi sull’effettivo vantaggio per il sistema-paese americano.


Conclusioni

Le argomentazioni a favore di una maggiore regolazione delle iscrizioni internazionali nelle università americane si basano su considerazioni di equità, coesione sociale e sviluppo economico. Anche se la gestione dell’Amministrazione Trump è stata spesso criticata per la sua durezza, la questione sollevata resta rilevante: l’internazionalizzazione delle università è un fenomeno positivo, ma va bilanciata con una maggiore attenzione all’accessibilità e alla mobilità sociale degli studenti americani.


Fonte principale:
Analisi e citazioni tratte dall’articolo “Non lasciatevi ingannare dalla brutalità di Trump. L’internazionalizzazione delle università americane è un problema reale” di Daniel A. Bell (Don’t Let Trump’s Brutality Fool You. The Internationalization of American Schools Is a Real Issue), pubblicato sul New York Times e ripreso dalla newsletter Corriere della Sera Global di Federico Rampini, sabato 7 giugno 2025

Nuovo: La valutazione formativa dei progetti Erasmus+: Un manuale operativo per i progetti KA220

I progetti KA220 sono progetti in ambito educativo che possono ottenere finanziamenti fino a 400 mila euro.

Questo manuale, scritto con un approccio pratico e numerosi esempi, ti spiega come monitorare e valutare progetti di questo tipo durante il loro svolgimento, in modo da identificare aree problematiche e suggerire al partenariato misure di miglioramento. Questo tipo di valutazione si chiama valutazione formativa e può essere svolta da personale interno al partenariato o da consulenti esterni.

Le indicazioni del manuale possono essere utilizzate anche per valutare progetti di altro tipo.

Il manuale è focalizzato solo sulla valutazione; se vuoi sviluppare competenze nella scrittura di progetti educativi KA220 o avere indicazioni dettagliate sulla loro struttura ti suggerisco la lettura del testo gemello Come ottenere finanziamenti Erasmus+ e vivere felici: Manuale di europrogettazione per i partenariati di cooperazione KA220 acquistabile su Amazon.

Sulla progettazione in generale vedi anche i miei articoli:

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Il Dilemma delle Politiche Migratorie: Quando la Solidarietà Genera Tensioni Sociali

Il conflitto tra diritti umani e sostenibilità sociale

Le politiche migratorie rappresentano uno dei terreni più complessi dove si manifesta la tensione tra diritti apparentemente inconciliabili. Da una parte, il diritto fondamentale alla protezione internazionale e alla ricerca di condizioni di vita migliori; dall’altra, il diritto delle comunità locali a servizi pubblici adeguati, sicurezza e coesione sociale. Questa tensione rivela ancora una volta come i diritti non esistano in un vuoto armonico, ma debbano confrontarsi con risorse limitate e dinamiche sociali complesse.

L’impatto sulle fasce più vulnerabili della popolazione locale

Contrariamente a quanto spesso si assume nel dibattito pubblico, le conseguenze delle politiche migratorie espansive non si distribuiscono uniformemente nella società ospitante. Mentre le élite economiche e culturali possono beneficiare di manodopera a basso costo e del capitale simbolico della “società aperta”, sono principalmente le fasce più deboli della popolazione locale a sostenere i costi diretti di questi processi.

I quartieri popolari sono quelli che sperimentano più direttamente i cambiamenti demografici rapidi, con la conseguente pressione sui servizi di base: scuole sovraffollate dove gli insegnanti devono gestire classi multiculturali senza risorse adeguate, ambulatori medici con tempi di attesa allungati, housing sociale con liste d’attesa sempre più lunghe. Sono i lavoratori meno qualificati che vedono aumentare la concorrenza nel mercato del lavoro, con conseguente pressione sui salari e sulle condizioni lavorative.

La pressione sui sistemi di welfare

I sistemi di welfare europei sono stati progettati in contesti demografici e economici specifici, con un equilibrio tra contribuenti e beneficiari che presupponeva comunità relativamente omogenee e integrate. L’arrivo massiccio di popolazioni che necessitano immediatamente di assistenza senza aver contribuito al sistema crea inevitabilmente squilibri strutturali.

Questo non significa che i migranti siano intrinsecamente un “peso” per il sistema – molti diventeranno contribuenti netti nel lungo periodo. Tuttavia, nell’immediato, la concentrazione di bisogni sociali intensi in tempi brevi può mettere sotto stress servizi già sotto pressione per l’invecchiamento demografico e le conseguenze di crisi economiche successive.

La matematica elementare della redistribuzione è inesorabile: se le risorse pubbliche rimangono costanti e i beneficiari aumentano, la quota pro capite diminuisce. Sono principalmente gli utenti tradizionali dei servizi pubblici – anziani, famiglie a basso reddito, disoccupati – a sperimentare questa riduzione relativa delle prestazioni.

La questione della sicurezza urbana

Un aspetto particolarmente sensibile riguarda l’impatto sulla sicurezza urbana. Anche senza cedere a generalizzazioni discriminatorie, è necessario riconoscere che processi migratori mal gestiti possono generare situazioni di degrado sociale. Quando grandi numeri di persone si trovano in condizioni di marginalità economica e sociale, senza prospettive di integrazione rapida, aumenta statisticamente la probabilità di comportamenti devianti.

I quartieri popolari, già spesso caratterizzati da fragilità sociali, diventano i luoghi dove queste tensioni si manifestano più acutamente. Le famiglie locali con risorse limitate non possono permettersi di trasferirsi altrove e si trovano a convivere con situazioni di degrado crescente: spaccio di droga, microcriminalità, occupazione abusiva di spazi pubblici.

Questo non significa attribuire ai migranti una propensione naturale alla delinquenza, ma riconoscere che condizioni sociali difficili possono generare problemi di ordine pubblico che colpiscono principalmente chi non ha alternative abitative.

Il paradosso della solidarietà selettiva

Emerge così un paradosso: le politiche migratorie più “generose” vengono spesso sostenute da segmenti della popolazione che ne sperimentano meno direttamente le conseguenze negative. È più facile sostenere l’accoglienza quando si vive in quartieri residenziali dove l’impatto demografico è limitato, quando si utilizzano servizi sanitari privati, quando i propri figli frequentano scuole che non devono gestire significative percentuali di alunni stranieri.

Questa dinamica crea una frattura sociale perversa: chi esprime preoccupazioni per gli effetti concreti delle politiche migratorie viene spesso stigmatizzato come “intollerante” proprio da coloro che non ne condividono i costi quotidiani.

Le conseguenze politiche della negazione del conflitto

La tendenza a negare o minimizzare questi conflitti reali ha conseguenze politiche significative. Quando il dibattito pubblico non riconosce le tensioni genuine vissute dalle fasce popolari, queste trovano spazio di espressione in movimenti politici che possono assumere toni estremi o semplicistici.

Il risultato è una polarizzazione che danneggia sia la qualità del dibattito democratico sia la possibilità di trovare soluzioni equilibrate. La sinistra tradizionale perde consenso tra le classi lavoratrici che si sentono abbandonate, mentre la destra populista può strumentalizzare le frustrazioni reali per progetti politici più ampi.

Verso politiche migratorie sostenibili

Riconoscere questi conflitti non significa abbracciare posizioni xenofobe, ma sviluppare politiche migratorie più realistiche e sostenibili. Questo richiede:

Gestione dei flussi proporzionata alle capacità di integrazione: L’accoglienza deve essere calibrata sulla capacità effettiva dei territori di assorbire nuove popolazioni senza compromettere la coesione sociale esistente.

Investimenti pubblici mirati: Quando si decide di accogliere flussi migratori significativi, è necessario investire preventivamente nel potenziamento dei servizi pubblici nei territori interessati, non lasciare che la pressione si scarichi automaticamente sugli utenti esistenti.

Distribuzione territoriale equa: Evitare la concentrazione di migranti sempre negli stessi quartieri popolari, sviluppando meccanismi di distribuzione che coinvolgano anche aree più privilegiate.

Politiche di integrazione rapida ed efficace: Investire seriamente in percorsi di integrazione linguistica, lavorativa e culturale che riducano i tempi di permanenza in condizioni di marginalità.

Riconoscimento dei costi per le comunità locali: Sviluppare meccanismi di compensazione e supporto per le comunità che sostengono i costi maggiori dell’accoglienza.

Conclusione: La sostenibilità come condizione della solidarietà

Una politica migratoria genuinamente progressista deve riconoscere che la solidarietà verso i migranti e la tutela dei diritti delle fasce deboli locali non sono automaticamente compatibili. Solo gestendo onestamente questa tensione è possibile sviluppare politiche che siano simultaneamente umane verso chi cerca protezione e giuste verso chi già vive in condizioni di difficoltà.

La vera sfida non consiste nel negare questi conflitti in nome di un universalismo astratto, ma nel trovare equilibri concreti che rendano la solidarietà sostenibile nel tempo. Solo così si può evitare che politiche migratorie mal calibrate finiscano per alimentare tensioni sociali che, alla lunga, danneggiano proprio gli obiettivi di inclusione e coesione che si prefiggevano di raggiungere.

Articolo contenuto sul sito www.orientamento.it. Elaborato da Leonardo Evangelista col supporto dell’IA. Leonardo Evangelista si occupa di orientamento dal 1993 e di formazione dal 2004. Riproduzione riservata. Vedi le indicazioni relative a Informativa Privacy, cookie policy e Copyright.

Il Paradosso dei Diritti: Quando l’Inclusione Genera Nuove Discriminazioni

L’illusione dell’armonia universale

Nel dibattito contemporaneo sui diritti civili domina spesso una narrazione ottimistica che presenta l’espansione dei diritti come un processo lineare e armonico. Secondo questa visione, ogni nuovo diritto riconosciuto si aggiungerebbe senza frizioni a quelli esistenti, creando una società progressivamente più giusta e inclusiva. La realtà, tuttavia, è più complessa e talvolta scomoda: i diritti fondamentali non sono sempre cumulativi o compatibili tra loro, ma possono entrare in conflitto, generando tensioni etiche e pratiche di difficile risoluzione.

L’ipocrisia del “nessuno perde”
Nel discorso pubblico, è diffusa una retorica secondo cui le politiche inclusive non danneggiano nessuno. Questa narrazione è rassicurante, ma raramente corrisponde alla realtà. Ogni estensione dei diritti modifica gli equilibri sociali, redistribuisce risorse, visibilità e opportunità. Le politiche che tutelano una categoria possono implicare sacrifici — talvolta significativi — per un’altra. E rimuovere questi effetti collaterali dal dibattito, in nome del politicamente corretto, non fa che aumentare il senso di ingiustizia percepita da chi ne è colpito.

Il caso paradigmatico dello sport intersessuale

Il mondo dello sport offre un esempio emblematico di questa tensione. La questione degli atleti intersessuali nelle competizioni femminili illumina con particolare chiarezza il paradosso dell’inclusione: il tentativo di garantire pari opportunità a una categoria può compromettere l’equità per un’altra.

Atleti come Caster Semenya hanno sollevato interrogativi fondamentali sulla natura stessa della competizione sportiva. La loro partecipazione alle gare femminili è stata oggetto di controversie non per discriminazione gratuita, ma per una questione di equità competitiva: molti atleti intersessuali presentano livelli di testosterone significativamente superiori alla media femminile, conferendo vantaggi fisiologici che possono risultare determinanti nelle prestazioni atletiche.

Il dilemma diventa evidente: includere questi atleti nelle competizioni femminili significa potenzialmente escludere o penalizzare le atlete nate biologicamente femmine, che si trovano a competere in condizioni di oggettivo svantaggio fisiologico. L’inclusione di una categoria genera, paradossalmente, l’esclusione di fatto di un’altra.

La geometria non euclidea dei diritti

Questo paradosso rivela una verità scomoda sui sistemi di diritti: essi non seguono una logica additiva semplice, ma operano secondo una “geometria non euclidea” dove l’espansione in una direzione può causare compressioni in altre dimensioni dello spazio sociale.

Il diritto all’identità e alla non discriminazione degli atleti intersessuali si scontra con il diritto delle atlete femmine a competere in condizioni eque. Il diritto alla libera espressione religiosa può confliggere con i diritti di genere. Il diritto alla sicurezza pubblica può entrare in tensione con le libertà individuali. Questi conflitti non sono aberrazioni del sistema, ma sue caratteristiche strutturali.

Le conseguenze non intenzionali delle politiche inclusive

Le politiche di inclusività, pur nascendo da intenzioni legittime e necessarie, possono generare conseguenze non previste che colpiscono proprio quelle “persone comuni” che costituiscono la maggioranza silenziosa della società. Quando si modifica l’equilibrio di diritti esistente per accogliere nuove istanze, si rischia di creare nuove forme di ingiustizia o di spostare semplicemente il peso della discriminazione su altri soggetti.

Nel caso dello sport, le atlete femmine si trovano in una posizione paradossale: criticare l’inclusione degli atleti intersessuali le espone all’accusa di intolleranza, mentre accettarla passivamente significa rinunciare a competere ad armi pari. Questa dinamica si replica in numerosi altri contesti sociali, creando tensioni sotterranee che spesso non trovano voce nel dibattito pubblico.

La necessità di scelte difficili

Riconoscere la natura conflittuale dei diritti non significa abbracciare il relativismo etico o negare l’importanza dell’inclusione. Significa piuttosto accettare che la costruzione di una società giusta richiede scelte difficili e talvolta dolorose, che non possono essere risolte attraverso formule magiche o compromessi superficiali.

Nel caso dello sport, alcune federazioni hanno tentato di trovare soluzioni attraverso categorie intermedie, limiti ormonali o competizioni separate. Nessuna di queste soluzioni è perfetta, e ciascuna comporta costi e benefici distribuiti in modo diseguale tra i soggetti coinvolti.

Verso una politica dei diritti più matura

Una politica dei diritti matura deve abbandonare l’illusione dell’armonia universale e abbracciare la complessità delle tensioni etiche reali. Questo significa:

Trasparenza sui costi: Ogni politica di inclusione dovrebbe esplicitare onestamente chi ne sostiene i costi e in che misura, evitando di nascondere le tensioni sotto la retorica dell’universale beneficio.

Partecipazione democratica reale: Le decisioni che riguardano l’equilibrio tra diritti in conflitto devono coinvolgere tutti i soggetti interessati, non solo le minoranze che rivendicano nuovi diritti, ma anche coloro che potrebbero vederne limitati i propri.

Valutazione empirica degli effetti: Le politiche inclusive devono essere sottoposte a verifica empirica dei loro effetti reali, con la disponibilità a modificarle quando generano conseguenze indesiderate.

Accettazione del pluralismo di valori: In una società complessa, valori legittimi possono entrare in conflitto senza che esista una soluzione univocamente corretta. La politica democratica deve saper gestire queste tensioni senza pretendere di risolverle definitivamente.

Conclusione: La saggezza dell’imperfezione

La vicenda degli atleti intersessuali ci insegna che la giustizia non è uno stato di perfezione raggiungibile, ma un equilibrio dinamico e sempre precario tra istanze legittime ma parzialmente incompatibili. Accettare questa imperfezione strutturale non è cinismo, ma saggezza: solo riconoscendo onestamente i limiti e i costi delle nostre scelte possiamo sperare di costruire società più giuste, anche se non perfette.

Il vero progresso non consiste nell’illusione di poter soddisfare simultaneamente tutti i diritti, ma nella capacità di gestire democraticamente e trasparentemente i conflitti inevitabili che sorgono quando cerchiamo di farlo. Solo così possiamo evitare che le politiche di inclusione si trasformino, involontariamente, in nuove forme di esclusione per le “persone comuni” che costituiscono il tessuto silenzioso ma essenziale delle nostre società.

Articolo contenuto sul sito www.orientamento.it. Elaborato da Leonardo Evangelista col supporto dell’IA. Leonardo Evangelista si occupa di orientamento dal 1993 e di formazione dal 2004. Riproduzione riservata. Vedi le indicazioni relative a Informativa Privacy, cookie policy e Copyright.

 

L’Intelligenza Artificiale e l’Empatia: Evidenze di Capacità Pari o Superiori a Quelle Umane

Introduzione

Negli ultimi anni, la capacità dei sistemi di intelligenza artificiale (IA) di riconoscere, interpretare e rispondere alle emozioni umane – nota come “empatia artificiale” – è diventata oggetto di crescente interesse accademico e applicativo. Diverse ricerche hanno indagato se e in quali contesti i siti e i chatbot basati su IA possano mostrare livelli di empatia pari o superiori a quelli degli esseri umani, sollevando questioni sia teoriche che pratiche sull’autenticità e l’efficacia di questa empatia simulata.

Definizione e dimensioni dell’empatia

L’empatia umana è tradizionalmente suddivisa in tre dimensioni: cognitiva (comprensione degli stati emotivi altrui), emotiva (risonanza con le esperienze emotive dell’altro) e motivazionale (preoccupazione e azione per il benessere altrui)6. L’IA, grazie ai progressi nel Natural Language Processing (NLP) e nel machine learning, è oggi in grado di riconoscere e rispondere alle emozioni umane almeno nella dimensione cognitiva, adattando tono, contenuto e ritmo delle risposte in modo personalizzato46.

Evidenze empiriche: IA più empatica degli umani?

Numerosi studi recenti hanno rilevato che le risposte generate dall’IA, in particolare dai Large Language Models come GPT, sono spesso percepite dagli utenti come più empatiche rispetto a quelle umane, anche da parte di professionisti del supporto emotivo28. In uno studio pubblicato su JAMA Internal Medicine, le risposte di ChatGPT a domande cliniche sono state giudicate più empatiche rispetto a quelle fornite da medici reali in oltre il 41% dei casi2. Un altro studio, condotto su 556 partecipanti e quattro esperimenti preregistrati, ha rilevato che le risposte empatiche di GPT sono state considerate più compassionevoli, reattive e valide rispetto a quelle di esseri umani, sia esperti sia non esperti8.

Le ragioni di questa percezione includono:

  • Struttura linguistica ottimale e priva di esitazioni
  • Assenza di giudizio e pregiudizi impliciti
  • Disponibilità illimitata e costante attenzione all’utente

Studio PNAS: Messaggi AI vs Umani

Una ricerca pubblicata sui Proceedings of the National Academy of Sciences ha prodotto risultati significativi riguardo alla percezione dell’empatia artificiale. Lo studio ha rivelato che “AI-generated messages made recipients feel more heard than human-generated messages and that AI was better at detecting emotions”. Questa scoperta suggerisce che, almeno in determinate condizioni sperimentali, i sistemi di AI possono generare risposte che i destinatari percepiscono come più empaticamente efficaci rispetto a quelle prodotte da esseri umani.

Studio Communications Psychology: Compassione Artificiale

Un altro studio rilevante, pubblicato su Communications Psychology, ha confrontato le risposte di AI con quelle di esperti umani in situazioni di supporto emotivo. I risultati hanno mostrato che “AI responses were preferred and rated as more compassionate compared to select human responders”. Particolarmente significativo è il fatto che questo pattern si è mantenuto anche quando l’identità dell’autore era nota ai partecipanti e quando l’AI veniva confrontata con operatori di crisi esperti.

Collaborazione Uomo-AI nel Supporto Mentale

La ricerca pubblicata su Nature Machine Intelligence ha esplorato le potenzialità della collaborazione uomo-AI nel supporto peer-to-peer per la salute mentale. Lo studio ha documentato che “Human-AI collaboration approach leads to a 19.60% increase in conversational empathy between peers overall”, con incrementi ancora più significativi (38.88%) tra i peer supporters che si identificavano come aventi difficoltà nel fornire supporto.

IA e Percezione dell’Empatia

Una ricerca condotta da Yin et al. (2024) ha evidenziato che le risposte generate da IA possono essere percepite come più empatiche rispetto a quelle umane, soprattutto quando i partecipanti non sono a conoscenza dell’origine artificiale del messaggio. Tuttavia, la consapevolezza che una risposta provenga da un’IA tende a ridurre la percezione di empatia, indicando un pregiudizio nei confronti delle risposte generate artificialmente .abc3340.com+2neurosciencenews.com+2reddit.com+2

IA nel Supporto alla Salute Mentale

Uno studio pubblicato su Communications Psychology ha confrontato le risposte di IA con quelle di professionisti della salute mentale, rilevando che le risposte dell’IA sono state valutate come più compassionevoli e preferite nel 68% dei casi. Gli autori suggeriscono che l’IA, priva di affaticamento emotivo, può offrire un supporto empatico costante, anche se riconoscono che ciò potrebbe non sostituire completamente l’interazione umana .abc3340.com

Limiti dell’Empatia Artificiale

Nonostante questi risultati promettenti, altri studi sottolineano i limiti dell’empatia artificiale. Ad esempio, una ricerca condotta da Roshanaei e Seif El-Nasr (2025) ha scoperto che l’IA tende a mostrare un’eccessiva empatia in situazioni negative e una risposta insufficiente in contesti positivi, evidenziando una mancanza di modulazione emotiva tipica degli esseri umani .wired.com+6news.cornell.edu+6time.com+6news.ucsc.edu

Meccanismi Sottostanti le Capacità Empatiche dell’AI

Rilevamento Emotivo Superiore

Le evidenze suggeriscono che i sistemi di AI possono eccellere nel riconoscimento e nell’interpretazione degli stati emotivi. La capacità di processare grandi quantità di dati linguistici e paralinguistici consente all’AI di identificare pattern emotivi che potrebbero sfuggire all’attenzione umana, particolarmente in contesti testuali dove le informazioni non verbali sono limitate.

Consistenza e Disponibilità

A differenza degli esseri umani, i sistemi di AI non sono soggetti a variazioni dell’umore, stanchezza o bias personali che possono influenzare la qualità delle risposte empatiche. Questa consistenza può tradursi in un’esperienza più affidabile per chi ricerca supporto emotivo.

Limitazioni e Considerazioni Critiche

Il Paradosso della Trasparenza

Nonostante l’efficacia dimostrata delle risposte AI, emerge un paradosso interessante: lo stesso studio PNAS ha rivelato che “recipients felt less heard when they realized that a message came from AI (vs. human)”. Questo suggerisce che la percezione dell’empatia artificiale è significativamente influenzata dalla consapevolezza della sua origine.

Limiti nell’Esplorazione Esperienziale

Ricerche condotte da Cornell Tech e Stanford University hanno evidenziato che, nonostante le capacità dimostrate, “conversational agents such as Siri do poorly compared to humans when interpreting and exploring a user’s experience”. Questo indica che mentre l’AI può eccellere in risposte empatiche immediate, presenta limitazioni nell’approfondimento e nell’esplorazione delle esperienze umane complesse.

Implicazioni per la Ricerca e la Pratica

Ripensare la Natura dell’Empatia

Questi risultati sollevano questioni fondamentali sulla natura dell’empatia stessa. Se l’empatia viene definita in termini di efficacia nel far sentire compresi e supportati i destinatari, allora l’AI dimostra capacità paragonabili o superiori a quelle umane in specifici contesti. Tuttavia, se l’empatia richiede una genuine comprensione emotiva e condivisione di stati affettivi, la questione diventa più complessa.

Applicazioni Terapeutiche e di Supporto

Le evidenze di efficacia dell’empatia artificiale aprono nuove possibilità per applicazioni terapeutiche e di supporto. La combinazione di disponibilità 24/7, consistenza nelle risposte e capacità di rilevamento emotivo potrebbe rendere i sistemi di AI particolarmente utili come primo livello di supporto o come strumenti di supporto avanzato per professionisti della salute mentale.

Articolo contenuto sul sito www.orientamento.it. Elaborato da Leonardo Evangelista col supporto dell’IA. Leonardo Evangelista si occupa di orientamento dal 1993 e di formazione dal 2004. Riproduzione riservata. Vedi le indicazioni relative a Informativa Privacy, cookie policy e Copyright.

Attacco alla libertà di espressione nelle università americane: non solo Trump

Un trend in corso da anni

Negli ultimi anni, le università americane, in particolare quelle dell’Ivy League come Harvard, sono diventate epicentri di un acceso dibattito sulla libertà di espressione. Federico Rampini, nel suo recente intervento sul Corriere della Sera Il caso Harvard era evidente quattro anni fa avverte che l’assalto di Donald Trump a queste istituzioni – fatto di tagli ai fondi e restrizioni sui visti per studenti stranieri – non è nato nel vuoto. Anzi, rappresenta una reazione distorta a un clima ideologico già compromesso.

Trump, con i suoi attacchi frontali, rappresenta un pericolo reale, ma Rampini insiste sul fatto che non si può ignorare il contesto che ha preceduto e favorito la sua retorica: «La libertà di espressione e il pluralismo sono stati sotto assedio a Harvard e in altre università molto prima che arrivasse Trump».

Il dominio della cultura woke

Secondo Rampini, la cosiddetta “woke culture” ha imposto un dogmatismo soffocante nelle università americane. Non si tratta solo di una svolta ideologica, ma di una vera e propria cultura della censura, che si traduce in:

1. Cancellazione sistematica di conferenze

Il “Disinvitation Database” di FIRE documenta decine di conferenze annullate perché l’oratore è stato giudicato inaccettabile, spesso per opinioni espresse anni prima, ritenute offensive da gruppi radicali. Le università si piegano a queste pressioni, revocando inviti per timore di proteste, boicottaggi o disordini, rinunciando di fatto al confronto intellettuale.

2. Censura ideologica nei contenuti e nel linguaggio

Rampini denuncia l’imposizione di un linguaggio politically correct estremamente rigido. È il caso, ad esempio, del divieto per i docenti di usare pronomi maschili o femminili nelle email, pena sanzioni disciplinari. Bisogna usare solo il neutro o formule come Latinx+ per rivolgersi alla popolazione ispanica, anche se – come ricorda Rampini – solo il 4% di questi cittadini preferisce tale definizione.

3. Polizia del pensiero e paura diffusa

Professori e studenti si autocensurano per timore di essere accusati di micro-aggressioni o appropriazioni culturali. In questo clima, la semplice espressione di un dissenso – anche educato – può comportare l’esclusione sociale o la perdita del lavoro. Alcuni dei “cancellati”, spiega Rampini citando l’articolo di Anne Applebaum The New Puritans vivono in un clima di paura tale da rifiutarsi di parlare anche sotto anonimato.

4. Egemonia nelle istituzioni

L’influenza della sinistra illiberale, formata nelle università élitarie, si è estesa al mondo dei media, delle aziende tecnologiche, delle scuole pubbliche e perfino nei manuali scolastici. Questa nuova classe dirigente ha assunto il controllo dei meccanismi di selezione e di definizione del discorso pubblico.


Oltre Trump: il paradosso delle epurazioni

La logica della cultura woke si fonda su una visione rovesciata della giustizia: poiché gli Stati Uniti sono stati fondati su sessismo e razzismo, è giusto limitare la libertà di espressione dei “privilegiati” per favorire le minoranze. In questa visione, togliere la parola non è censura, ma giustizia riparativa. Rampini definisce tutto questo un nuovo “Risveglio puritano”, con i suoi rituali: condanna pubblica, pentimento, espiazione. La cancel culture, lungi dall’essere progressista, assume tratti religiosi e fondamentalisti. Vedi anche We Have Never Been Woke: The Cultural Contradictions of a New Elite. 


Un clima che alimenta la reazione

Questa metamorfosi delle università americane, da luoghi del libero pensiero a spazi di sorveglianza ideologica, ha offerto a Trump un potente pretesto per la sua crociata anti-élite. E nella sua base elettorale, composta in larga parte da persone senza titolo universitario, il risentimento verso queste “torri d’avorio” è antico e profondo. La sinistra, osserva Rampini, dovrebbe riconoscere le proprie responsabilità nel regalare a Trump questo bersaglio.


Conclusione

L’attacco alla libertà di espressione nelle università americane non è una partita a senso unico. È il frutto avvelenato di anni di intolleranza ideologica e di una deriva puritana mascherata da giustizia sociale. Per difendere davvero la democrazia liberale – e non solo dagli estremismi di destra – occorre denunciare con la stessa fermezza anche quelli che nascono a sinistra. Solo così sarà possibile recuperare l’università come luogo di confronto, dissenso e crescita intellettuale autentica.

Articolo contenuto sul sito www.orientamento.it. Autore Leonardo Evangelista.  Vedi le indicazioni relative a Informativa Privacy, cookie policy e Copyright.